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Channel: WhiteRussian: cinema (e non solo) all'ultimo sorso
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Submarine

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Regia: Richard Ayoade
Origine: UK, USA
Anno: 2010
Durata: 97'




La trama (con parole mie): il quindicenne Oliver Tate vive in un mondo per lui piuttosto difficile, messo all'angolo da una società scolastica lontana dalla sua timidezza ed alle corde dal rapporto con e tra i suoi genitori, pronti a rimbalzare tra lavori che non li soddisfano ed un destino di legami forse riciclati.
Quando ha inizio la storia sentimentale con la coetanea Jordana Bevan per Oliver cambiano le prospettive, dal sesso al confronto con il mondo.
La crisi del matrimonio dei genitori e la malattia della madre della nuova fidanzata porteranno il ragazzo a confrontarsi con il dramma filtrato attraverso lo specchio deformante dell'adolescenza: riuscirà Oliver ad uscire dal guscio e limitare i danni? O dovrà rassegnarsi alla chiusura nel sottomarino che da sempre immagina essere il riparo ideale per i suoi sentimenti?








L'adolescenza è davvero una gran brutta bestia.
Forse la peggiore con la quale ci troviamo a duellare nel corso della nostra esistenza, messe da parte le vere grandi tragedie e concentrandoci solo ed esclusivamente sulla quotidianità.
Oliver Tate è l'esempio perfetto dei "drammi" che la maggior parte di noi si trova a vivere nel tumultuoso - almeno per il cuore - periodo appena citato, dall'eccessiva timidezza all'eccessiva stima di se stessi, dalla percezione distorta del mondo alla tendenza a complicare il più possibile anche la semplicità: Richard Ayoade costruisce alla perfezione sul suo protagonista proprio la sensazione di disagio perenne che avvolge il tipico adolescente "sensibile" nel periodo più delicato della sua crescita, quello che, in un qualche modo, lo definirà per come sarà una volta divenuto adulto, strizzando l'occhio al Cinema indie che conta - da Wes Anderson a This is England - riuscendo, almeno all'apparenza, a far entrare in profonda empatia i personaggi principali con il pubblico malgrado la loro quasi totale ed incredibile antipatia.
Se dovessimo guardare Submarine da un punto di vista sociologico, dunque, si potrebbe quasi pensare di trovarsi di fronte ad un film impeccabile sia dal punto di vista della capacità di portare sullo schermo le sfumature più o meno piacevoli dei suoi protagonisti, sia rispetto alla cornice che permette al regista di raccontare Oliver in tutte le sue sfaccettature - memorabile, ad esempio, il personaggio interpretato da Paddy Considine, cartina tornasole del rapporto tra i genitori Tate -, sia rispetto allo stile, per certi versi un pò troppo alternativo - i finti filmini di Oliver a proposito del suo rapporto con Jordana - ma comunque incisivo nel complesso.
Eppure un film non è soltato estetica, messa in scena, programmazione razionale e studiata a tavolino di quello che potrebbe colpire il pubblico: ed è proprio in questo senso che Submarine difetta.
Nel corso di tutta la visione, infatti, niente di quello passato sullo schermo - e con niente intendo anche i passaggi pronti a ricordare al sottoscritto momenti della sua stessa adolescenza - è riuscito a smuovere un coinvolgimento emotivo in grado di azionare la macchina del tempo come fu per lo splendido Noi siamo infinito, o anche soltanto alzare il gomito per il colpetto che, in amicizia, può voler significare molte cose senza che ci sia il bisogno effettivo di esprimerle a parole o per immagini.
Ayoade, sfruttando le performance decisamente ottime di tutti i suoi attori - dal già citato Considine ai giovani Roberts e Paige, senza dimenticare i veterani Sally Hawkins e Noah Taylor, in grado perfino di ricordarmi l'ottimo Il calamaro e la balena - ed una messa in scena stilosa al punto giusto, confeziona un compito da alunno modello al quale, però, manca il carattere che solo l'imperfezione e l'istinto sanno regalare, il guizzo da numero dieci che trasforma, parafrasando i Fab Four, un semplice submarine in uno strabiliante yellow.
Soltanto in un passaggio, infatti, sulle note del responsabile della colonna sonora e cantante degli Arctic Monkeys Alex Turner, è possibile notare un trasporto che possa indurre a pensare che all'uomo dietro la macchina da presa - e da scrivere - importi qualcosa del cuore della sua opera, ma è poca cosa rispetto a novanta minuti che avrebbero potuto rappresentare un vero e proprio cult per gli amanti del genere e non solo. 
In un certo senso, concedersi la visione di Submarine è un pò come dare appuntamento ad un teenager: non avrai mai la garanzia che si possa trattare dell'illuminazione di un innamoramento o dell'illusione di una cotta per qualcuno cui, in realtà, non frega niente di te.
E, pescando dal bacino sempre utile dell'action, potrei interpretare questo dubbio con una citazione intramontabile: sono troppo vecchio per queste stronzate.



MrFord



"If I don't explain what you ought to know
you can tell me all about it
on, the next Bardot
I'm sinking in the quicksand
of my thought
and I ain't got the power anymore."
David Bowie - "Quicksand" - 




Fucking Amal - Il coraggio di amare

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Regia: Lukas Moodysson
Origine: Svezia, Danimarca
Anno: 1998
Durata: 89'





La trama (con parole mie): in una piccola cittadina svedese, due adolescenti vivono destini diametralmente opposti. Elin è considerata una delle più attraenti e ribelli della scuola, cambia ragazzo senza alcuna fatica, insieme alla sorella non esita a buttarsi in feste ed avvenimenti considerati mondani e sogna di abbandonare il paese.
Agnes, trasferitasi da due anni, ancora fatica ad avere amici, coltiva un rapporto non risolto con i suoi genitori e nasconde al mondo il proprio amore per Elin.
Quando, a seguito di una scommessa e di ripicche adolescenziali tra amici e fidanzati di turno, Elin finge di manifestare interesse per Agnes arrivando a baciarla, si innesca tra loro un rapporto che porterà le due ragazze a rivedere completamente il proprio punto di vista ed il rapporto con il mondo.






Esistono alcuni titoli che è un peccato non poter cogliere nel momento giusto della propria vita di spettatori, quando le sensazioni, la vita e qualunque altra cosa sia in ballo in quell'istante potrebbe rendere l'esperienza unica e speciale: è il caso di Fucking Amal, uscito sul finire degli anni novanta e spesso e volentieri incensato dalla critica alternativa come sguardo unico e diverso nel mondo del Dogma nato in Danimarca pochi anni prima, incentrato sui turbamenti adolescenziali delle giovanissime Agnes ed Elin, così diverse tra loro da finire per esercitare l'una sull'altra non solo un'influenza, ma anche un'irresistibile attrazione.
Con ogni probabilità, infatti, se avessi incrociato il mio cammino con quello del lavoro di Moodysson ai tempi della sua uscita, non ancora ventenne, ora considererei questo come uno dei titoli di formazione cui non si smette mai di voler bene, e che finiscono per occupare un posto speciale nella propria galleria di amarcord emozionale: un vero peccato, dunque, averlo recuperato solo ora, per giunta in occasione della Blog War con la mia nemesi Cannibal Kid - e dunque neppure nelle condizioni migliori, considerato di essere costretto, "per doveri di cronaca e personaggio", a sottolinearne più i difetti che non i pregi -, quando i ricordi dell'adolescenza cominciano a diventare vaghi e la sensazione che, ai tempi, per dirla come Guccini, "si è stupidi davvero", e dunque inesorabilmente destinati a propendere per scelte che in seguito verranno altrettanto inesorabilmente rinnegate.
Ad ogni modo, il lavoro del buon Moodysoon è ben svolto, e seppur tecnicamente non eccelso saggiamente costruito attorno alle due splendide protagoniste, una sorta di sorelline minori delle interpreti del più recente ed incisivo La vita di Adele, nonchè attento a portare in scena una problematica ai tempi ancora poco analizzata come quella dei rapporti omossessuali in età non adulta ed all'interno di uno degli ambiti più crudeli che si possano immaginare: quello della scuola.
In questo senso, più che la più timida e complessata Agnes risulta interessante la ribelle Elin, dal rapporto decisamente non risolto con la sorella a quello con i ragazzi fino al legame costituitosi quasi per caso con Agnes stessa, nato da una scommessa e divenuto uno di quei "dolori" destinati a segnare l'adolescenza e, chissà, forse l'intera esistenza di chi lo vive.
Il vero pregio di questo film è proprio da ricercare nella semplicità attraverso la quale il regista sceglie di raccontare questa improbabile storia d'amore, sia che si parli di girato che di narrazione, quasi come fosse un Ken Loach privo del carico di dramma che, di norma, il cineasta anglosassone porta in eredità al suo pubblico: una scelta che mi trovo a condividere, considerato che, con tutti i suoi alti e bassi, l'adolescenza e quello che la stessa comporta - soprattutto le storie d'amore - dovrebbe essere vissuta come una gioia, perchè nient'altro nel corso della vita avrà, in un certo senso, la stessa intensità e portata.
Peccato che, spesso e volentieri, si è troppo stupidi, per l'appunto, per cogliere questa sfumatura nel momento in cui la si ha tra le mani.
Resta dunque da chiedersi se Elin ed Agnes saranno rimaste insieme, se la prima avrà di fatto scoperto la sua attrazione per le ragazze o se, alla lunga, sarà tornata sui suoi passi spezzando il cuore della seconda, o addirittura il contrario.
Oppure poco importa: quello che conta è che le due ragazze siano uscite da quel bagno, incuranti della neppure troppo sottile crudeltà e della malizia dei compagni di scuola, e abbiano camminato a testa alta verso il loro futuro.



MrFord



"I wanna know what love is
I want you to show me
I wanna feel what love is
I know you can show me."
Foreigner - "I wanna know what love is" -



Il capitale umano

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Regia: Paolo Virzì
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 109'



La trama (con parole mie): in un Nord Italia a metà strada tra la crisi economica e le speranze che dall’adolescenza proseguono fino all’età adulta rispetto ad un modello dato dai “nuovi ricchi” si muovono le famiglie Bernaschi ed Ossola. 
I primi, di successo, conosciuti e riveriti, a proprio agio in ogni occasione, specie se ad alti livelli, si trovano legati a doppio filo ai secondi quando il rapporto irrisolto dei due figli – che fingono di stare insieme anche quando non lo sono più da un pezzo – funge da catalizzatore per un’improbabile inserimento in un affare da capogiro – e da squali della finanza neppure troppo lecita – di Dino, capofamiglia degli Ossola.
Ad aggiungersi a questo guaio, i crescenti tormenti della moglie di Giovanni Bernaschi, affascinata da un ritorno al passato e al teatro, ed un incidente che costa la vita ad un cameriere, del quale sembra essere responsabile il giovane Massimiliano, tornato a casa ubriaco dopo una festa. 
Almeno fino a quando non viene portato a galla dalla polizia il coinvolgimento di Serena Ossola nell'accaduto.








Virzì è un regista di quelli che, al Saloon, trovano sempre facilmente un posto a sedere ed un brindisi ad accoglierli, tra i pochi in questo ormai più che disastrato Bel Paese ad avere la forza e l’impegno necessari per raccontare ad un certo livello e con una buona profondità.
Da Ovosodo a Caterina va in città, fino allo splendido La prima cosa bella– forse il migliore tra i suoi lavori -, l’autore livornese ha sempre portato grande attenzione a quella che era la situazione in cui versava il Nostro Paese nel momento della realizzazione della pellicola di turno, specchiandole tutte nel presente e nel passato di un’Italia che, di fatto, ha sempre basato la sua determinazione – quando ha avuto voglia di manifestarla – sulla forza necessaria a superare e lasciarsi alle spalle i problemi, piccoli o grandi che fossero.
Il capitale umano, passato in colpevole ritardo qui al Saloon e giunto in occasione della sua investitura ufficiale a candidato italiano per l'Oscar, portava sulle spalle non solo la responsabilità del suo regista e delle ottime recensioni ricevute, ma anche di un momento certo non florido della settima arte nostrana, in bilico tra la crisi economica che ormai da tempo soffoca il progresso non solo italiano e quella culturale – che potrebbe essere perfino peggiore – e proposte interessanti che ormai si contano, nel corso della stagione, sulle dita di una mano.
Il risultato è stato un successo a metà, reso possibile in positivo dalla scelta di una narrazione divisa per capitoli e punti di vista differenti, dalla selezione degli attori “navigati” – ottimo Bentivoglio, bravi Gifuni e la Bruni Tedeschi – e da un piglio da thriller sociale decisamente interessante ed in negativo da un vero e proprio crollo rispetto alle concessioni da film di grande distribuzione sul finale – davvero pessimo lanciare il sasso e ritrarre la mano, per un regista da sempre impegnato come Virzì -, da una nuova leva di interpreti decisamente non all’altezza – i due figli protagonisti della vicenda dell’incidente al limite dell’imbarazzante, di poco sopra il giovane sbandato Luca – e dalla sensazione che lo stesso cineasta livornese non avesse un’idea precisa a proposito della direzione da dare all’intera opera: quello che è dietro, infatti, a Il capitale umano è una presa di posizione potente e decisa contro una società che premia un certo tipo di aggressività da classe alta ed abbiente rispetto ad una bassa ed operaia relegata a risarcimenti moralmente deplorevoli – il capitale umano del titolo – oppure una versione d’autore e più profonda dei drammi mucciniani che andavano per la maggiore una quindicina d’anni fa?
La crisi ha di fatto colpito anche Virzì, oppure il suo intento era quello di mescolare le carte in modo da raccontare un disagio che è presente e radicato da una parte e dall’altra della barricata?
Al termine della visione, non credo di aver trovato una risposta chiara e valida a queste domande, così come non mi sono sentito affatto convinto di applaudire a questo film come molti altri colleghi della blogosfera e non, quasi dietro ad esso si celasse una scomoda aura di parziale ipocrisia che potrà apparire ai vecchi irriducibili di Ovosodo come un vendersi da parte del buon Virzì e ai suoi detrattori come un’accusa neppure troppo velata e decisamente goffa ad un sistema che, di fatto, sta ancora e come sempre dando ragione agli squali.
Che non paiono essere stufi di nuovo sangue.



MrFord



"Sono tanti arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti,
sono replicanti, sono tutti identici guardali
stanno dietro a machere e non li puoi distinguere.
Come lucertole si arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno, spendono, spandono e sono quel che hanno."
Frankie Hi-NRG - "Quelli che benpensano" -


 

Maze runner - Il labirinto

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Regia: Wes Ball
Origine:
USA, Canada, UK
Anno:
2014
Durata: 113'




La trama (con parole mie): il giovane Thomas, trasportato da un misterioso montacarichi, si ritrova in una radura quasi incontaminata circondato da altri ragazzi della sua età che da tre anni si confrontano con la vita immersi nella Natura ed il grande Labirinto che incombe sul loro rifugio.
La struttura, pronta ogni notte a cambiare secondo uno schema che si ripete periodicamente, è mappato con cura dai Velocisti, che si occupano di esplorarlo durante il giorno per tornare al tramonto, evitando il contatto con le terrificanti creature poste a guardia dei suoi corridoi, in cerca di un'ipotetica via d'uscita che pare non esistere.
Thomas, curioso e poco propenso a seguire ciecamente le regole cui i ragazzi si rifanno per poter convivere con la situazione inspiegabile in cui si trovano - nessuno di loro ha memoria del tempo trascorso prima dell'arrivo nel luogo che li ospita -, diverrà l'ago della bilancia nel confronto tra una nuova generazione e le precedenti, responsabili di aver portato i loro figli di fronte al Labirinto.







Sinceramente non riesco a spiegarmi l'epidemia di trilogie e saghe teen fantasy proliferate come funghi in Letteratura e al Cinema negli ultimi dieci anni: si stava bene ai tempi in cui due generazioni differenti avevano avuto Star Wars e Il signore degli anelli intervallati da quello che è senza dubbio il periodo più interessante per il genere, gli anni ottanta, senza Twilight, Hunger Games ed affini ad ammorbare gli adulti cui non dispiacerebbe tornare bambini almeno con il pensiero così come i giovani, privi degli stimoli che noi divenuti ormai vintage siamo stati senza dubbio fortunati ad avere.
Parte di questo fenomeno ha portato alla ribalta Maze Runner, primo film di una supposta trilogia che pesca a piene mani dal già citato immaginario eighties, miti dell'antichità - del resto, il labirinto è uno dei concetti più interessanti elaborati fin dall'alba dei tempi - e gusto attuale, purtroppo simile per destino al recente The giver - Il mondo di Jonas, partito meglio di quanto si potesse sperare e naufragato inesorabilmente minuto dopo minuto.
Se, infatti, la prima parte - con tutti i suoi limiti che ricordano in parte The village, seppur in versione decisamente minore, ed altri il terribile After Earth, seppur in versione decisamente maggiore - può sperare quantomeno di catturare l'attenzione non troppo decisa del pubblico, con la seconda la noia e la lentezza paiono prendere il sopravvento - considerato che si tratta di un film d'intrattenimento indirizzato ad un pubblico giovane, sono rimasto stupito da quanto pesante mi sia parso arrivare alla conclusione -, spalleggiate dalla scellerata scelta di adattare il romanzo - che, non avendo letto, non posso apertamente criticare - come se Thomas fosse una sorta di dio sceso in terra per dare una mano alla manica di stronzi che per tre anni tre sono riusciti praticamente solo a tirare la carretta di fronte al Labirinto, in attesa che giungesse tra loro una sorta di prescelto pronto in tre giorni non solo a risolvere tutti gli enigmi del caso, ma anche a sovvertire completamente l'ordine del mondo per come il gruppo di ragazzi prigionieri l'aveva conosciuto.
Una cosa che sfiderebbe la logica perfino nel più illogico tra gli horror di bassa lega, e che finisce per portare di nuovo a galla i ricordi del sottoscritto rispetto alla già citata schifezza con protagonisti gli Smith padre e figlio dello scorso anno, sacrificando anche quanto di buono poteva essere stato fatto soprattutto nell'incipit e nella costruzione del film, senza neppure, in tutto questo, citare il terribile spiegone conclusivo appena precedente il ridicolo confronto tra Thomas ed il suo rivale Gally, pronto a lanciarsi all'inseguimento del protagonista attraverso il Labirinto pur non avendo mai, di fatto, messo piede nello stesso finendo per replicare il successo nell'impresa di andare oltre dello stesso main charachter.
Una robetta, dunque, che potrà - anche se non ci metterei la mano sul fuoco - soddisfare il pubblico meno esperto ed i giovani senza troppe pretese, ma che di fatto riesce a scampare alle bottigliate o ad un voto più basso soltanto perchè, privo delle informazioni della lettura di riferimento, non volevo apparire troppo limitante e cattivo, almeno per una volta.
Resto comunque dell'idea che, se per una qualsiasi congiuntura favorevole il secondo capitolo già in lavorazione ed il successivo terzo non venissero portati a termine non sarebbe certo una perdita per il mondo della settima arte e per noi spettatori, che ci risparmieremmo l'ennesimo polpettone pseudo adolescenziale privo del fascino dei titoli con i quali siamo cresciuti così come dell'appeal di saghe forse non perfettamente riuscite ma comunque coinvolgenti come quella di Harry Potter.
Purtroppo ho l'impressione che il futuro non mi darà ragione e saremo costretti a subirci i capitoli che verranno realizzati, ma almeno una consolazione ce l'ho: già dal prossimo, non sarò così magnanimo e pronto a passare oltre i difetti di una sorta di cocktail poco riuscito realizzato shakerando elementi e tematiche presenti in cult con i quali sono cresciuto e che continuo a trovare importanti ancora oggi.



MrFord



"Now everything is reflection
as I make my way through this labyrinth
and my sense of direction
is lost like the sound of my steps
is lost like the sound of my steps."
Elisa - "Labyrinth" -




Joe

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Regia: David Gordon Green
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
117'




La trama (con parole mie): Joe è un ex detenuto di mezza età dedito all'alcool e al duro lavoro, un uomo tutto d'un pezzo pronto ad aggredire la vita e chi gli mette i bastoni tra le ruote senza pensarci due volte. Quando Gary, un quindicenne dall'incrollabile voglia di scrollarsi di dosso le violenze del padre - il vagabondo alcolizzato Wade - e cercare di costruirsi un futuro chiede un impiego allo stesso Joe, l'uomo si ritrova in qualche modo coinvolto affinchè il ragazzo possa crescere nel migliore dei modi, ed essere premiato per la fatica che è disposto a fare per raggiungere il suo scopo.
Ma la realtà nella provincia perduta non sempre è facile da digerire e cambiare, e dunque Joe e Gary si troveranno a dover fare fronte comune affinchè i danni siano limitati al minimo e possa, una volta che la polvere si sarà posata ed i conti con Wade saranno saldati, ancora esserci una speranza.








Essere d'esempio a qualcuno, che si tratti di un allievo, un amico, un dipendente, una persona che condivide con noi almeno un pezzo di strada, è una delle cose più complicate con la quale confrontarsi.
Ancor di più se l'essere d'esempio riguarda i figli: questo perchè, nonostante di norma e per consuetudine sociale si tende a nasconderli bene, i nostri difetti finiscono e finiranno inevitabilmente per influenzare in una certa misura chi raccoglierà, volente o nolente, la nostra eredità da queste parti.
Fare da padre - o da madre, ovviamente -, inoltre, a qualcuno che figlio nostro non è risulta ancora più difficile: nel corso della mia vita, ho potuto vivere tre esempi di questo tipo di situazione, ed in tutti e tre i casi sono rimasto ammirato e stupito dalla forza che i loro protagonisti hanno mostrato decidendo di portare sulle loro spalle il peso della responsabilità legata alla crescita di figli non propri.
Uno è stato mio nonno, lo stesso dei western, quello cui devo, probabilmente, anche parte dell'amore per il Cinema, una mia suocera ed il terzo un collega e "vicino".
Quando penso a loro, ed alla mia condizione di padre, penso che non tutti sarebbero in grado di avere certe palle.
Joe è un film - ed un personaggio - con queste palle.
Non è il "Killer" predatorio e senza pietà di Friedkin, quanto più - per rimanere legati ad atmosfere molto simili ed allo stesso protagonista, Matthew McConaughey - una versione adulta ma non meno problematica di Mud: l'incontro con il giovane Gary - interpretato dall'intenso Tye Sheridan, che fu spalla del già citato McConaughey sempre in Mud - smuove infatti il protagonista di questa pellicola ruvida e passionale verso territori che, forse, non avrebbe mai pensato di esplorare, abituato a badare fondamentalmente soltanto a se stesso, seppur dotato di un animo da cavaliere improvvisato pronto a soccorrere chiunque ne abbia bisogno, ed abbia il suo rispetto.
Joe - cui presta volto ed una dirompente fisicità un ottimo Nicholas Cage - è una vicenda di confine, ennesimo ritratto dell'America "persa tra il nulla e l'addio" che dal primo Malick ai più recenti lavori di Nichols, passando per le canzoni di Bruce Springsteen è divenuta parte anche dell'immaginario di tutti noi da quest'altra parte dell'oceano, che al contempo ci ritroviamo affascinati da questa sorta di mitologia a metà tra la malinconia e l'esplosività, gli spazi sconfinati e la mancanza di prospettive.
Non è un film perfetto, soprattutto in fase di scrittura e di post produzione, e non può essere considerato all'altezza dei due pezzi da novanta che ho sfruttato per introdurlo, eppure rappresenta senza dubbio uno dei viaggi nel cuore degli USA della provincia profonda più interessanti e coinvolgenti delle ultime stagioni, un cane da battaglia pronto a mordere alla gola lo spettatore con il suo piglio senza fronzoli e legato ad una realtà che non deve avere molto dell'american dream, così come è raccontato anche in pellicole come Out of the furnace, Shotgun stories ed in una certa misura più autoriale nel recente Nebraska.
David Gordon Green, autore dello spassosissimo Strafumati - che è uno dei miei cult assoluti della Apatow generation, nonchè dei buddy movies da serata di sbronza senza ritegno -, pare aver ingranato la marcia in più che potrebbe portarlo tra i volti più interessanti del Cinema indie di confine statunitense, regalando a Nicholas Cage, divenuto negli ultimi tempi simbolo di quasi ovvie tamarrate di grana grossa uno dei ruoli più interessanti degli ultimi dieci anni di carriera che, tra le altre cose, l'attore veste come un guanto dall'inizio alla fine.
Per quanto scostante, iroso, minaccioso, senza dubbio imperfetto, uno come Joe lo si vorrebbe sempre dalla propria parte. Perchè Joe è come un cane, fedele alla sua Natura fino alla fine.
Ed in un certo senso, lo è anche Wade.
E troppo spesso e volentieri, si sa, i cani finiscono per essere decisamente migliori degli uomini.
A meno che non si sia uno come Joe, che "almeno per quanto mi riguarda, era davvero un brav'uomo".



MrFord



"Hey Joe, where you goin' with that gun in your hand?
Hey Joe, I said where you goin' with that gun in your hand?
Alright. I'm goin down to shoot my old lady,
you know I caught her messin''round with another man.
Yeah,! I'm goin' down to shoot my old lady,
you know I caught her messin''round with another man.
Huh! And that ain't too cool."
Jimi Hendrix - "Hey Joe" - 



Sex tape - Finiti in rete

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Regia: Jake Kasdan
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
94'





La trama (con parole mie): Annie e Jay sono sposati da una decina d'anni, vivono felicemente con i loro due figli e portano avanti le loro carriere - lei mommy blogger di successo, lui nel settore musicale - ricordando quasi ironicamente i tempi in cui il sesso era la parte più importante delle loro giornate e del rapporto.
Quando, proprio per rinverdire i fasti del passato, i due decidono di sfruttare una nottata di solitudine per dedicarsi ad una maratona di sesso riprendendosi con il nuovissimo Ipad di Jay, ha inizio il dramma: tramite una app che permette di condividere contenuti e playlist il video viene spedito in lungo e in largo a parenti ed amici, costringendo la coppia a vivere una vera e propria avventura per cercare di impedire che il filmato con loro protagonisti divenga un must a partire dalla cerchia dei conoscenti.
Riusciranno nell'insolita impresa senza cedere all'ansia e sfruttando la situazione per ritrovare l'intesa tra le lenzuola dei tempi d'oro?








Nell'ambito del Cinema usa e getta, quello da multisala il sabato o la domenica pomeriggio, esistono, di fatto, due grandi tipologie di film in grado di raccogliere il grande pubblico e fornire l'alibi giusto per il cervello degli "intenditori" nelle serate di stanca eccessiva: i popcorn movies e i titoli spazzatura.
I primi, tendenzialmente tamarri e sopra le righe, finiscono per essere una sorta di segnale inviato ai neuroni che dichiara la chiusura momentanea delle attività cerebrali per una serata senza impegno, nel corso della quale le preoccupazioni maggiori consisteranno nello scegliere l'alcolico che accompagnerà la visione e se sarà più il caso di buttarsi sul gelato o le patatine.
I secondi, invece, sono putroppo quello che sono.
Titoli buoni giusto per sfogare la propria "ira critica" o pensare che, se fossimo aspiranti registi, ci sarebbe davvero speranza per tutti.
Purtroppo per il sottoscritto e la sua volontà di cercare un pò di riposo a seguito di giorni pieni tra lavoro, l'inizio dell'esperienza al nido del Fordino e gli impegni quotidiani, Sex tape - Finiti in rete finisce senza neppure pensarci due volte nella seconda categoria.
Considerato che dovrebbe trattarsi di una commedia romantica in stile Apatow e che avrebbe almeno in parte pretese rispetto all'essere divertente, la pellicola diretta dal figlio d'arte Jake Kasdan si rivela un fallimento su tutta la linea: banale, prevedibile, mai divertente, pseudo alternativa con strizzate d'occhio al concetto di famiglia disfunzionale tanto caro al Cinema indie - soprattutto USA -, questa robetta è stata un vero e proprio patimento che neppure l'ironia rispetto ad una fase della vita che in casa Ford si sta vivendo in prima persona - gli impegni genitoriali e lavorativi che finiscono per togliere spazio all'irruenta passionalità selvaggia dei primi tempi che si passano insieme a quella che si pensa sia e si spera poi diventi la persona della propria vita - ed un paio - ma giusto un paio - di battute divertenti potevano sperare di salvare.
In effetti, non ce l'avrebbe fatta neppure un porno amatoriale della sempre in forma protagonista Cameron Diaz gentilmente offerto per il piacere del pubblico maschile a rendere credibile e piacevole questa versione in minore e totalmente inutile di Questi sono i 40, la cui visione potrebbe essere paragonabile ad uno di quegli appuntamenti in cui non vedi l'ora che sia tutto finito per andartene a casa o rimanere in giro da solo per essere te stesso e goderti davvero la nottata.
Perfino le piccole parti di Rob Lowe - che dopo i recenti Behind the candelabra e A normal heart pareva diventato una garanzia - e di un'ormai sbiadita copia di se stesso Jack Black riescono a salvare un titolo tra i più tristi di questa seconda parte dell'anno, incapace di trovare un significato sia come divertissement che come spunto per una qualche riflessione sui rapporti di coppia o in famiglia celata dietro una maschera da commedia slapstick Anni Zero.
Non mi pare neppure giusto scrivere che sia stato un peccato, anche perchè le aspettative erano basse e la blogosfera aveva già parlato - e con una certa coesione, in merito al giudizio - bocciando pienamente l'intera operazione: più che altro resta l'ennesima conferma di un anno cinematografico decisamente fiacco, partito con grandi prospettive e finito, dalla primavera in poi, in una palude di proposte delle quali si sarebbe fatto francamente a meno.
Un pò come di questa solo apparentemente simpatica ricerca priva di logica e mordente dei due improvvisati attori porno casalinghi.



MrFord



"Let's go, don't wait, this night's almost over
honest, let's make this night last forever
forever and ever, let's make this last forever
forever and ever, let's make this last forever."
Blink 182 - "First date" - 



Thursday's child

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La trama (con parole mie): finalmente, dopo mesi di carestia cinematografica in sala nel corso dei quali occorreva quasi elemosinare anche un solo titolo interessante a settimana, a questo giro finiamo per averne addirittura due, uno fracassone ed uno molto indie. Quasi il dio della settima arte avesse cercato di soddisfare sia il sottoscritto che il suo eterno rivale Cannibal Kid.
Riusciranno i due titoli in questione a colpire i due tenutari di questa rubrica, e magari perfino metterli d'accordo? Solo il tempo - e le visioni - ce lo diranno, nella speranza che l'accordo stesso non sia quello di massacrare anche queste potenziali bombe.


"La vuoi sapere una cosa, ragazzino? Guidi molto meglio di Ford!"


Guardiani della Galassia

Ebbene sì: anche il Cucciolo Eroico è diventato un Expendable, dopo la cura di Ford!

Cannibal dice: Il successo più clamoroso dell'annata negli Stati Uniti arriva anche dalle nostre parti. Riusciranno i Guardiani della Galassia a risollevare pure i botteghini italiani che, a parte i successi di Lucy e Colpa delle stelle, non stanno vivendo un periodo particolarmente fortunato? Lo scopriremo presto, per l'eccitazione di Ford che non vede l'ora di gustarsi un film da perfetto 12enne, e per la mia indifferenza. Come per tutti i filmetti della Marvel personalmente non nutro grosse aspettative, ma questo potrebbe regalare maggiori risate. Spero allora sia un film più Misfits/Kick-Ass che Iron Man/The Avengers, ovvero più cannibalesco e meno fordiano.
Ford dice: finalmente, dopo settimane e settimane di stronzatine da teen cannibali, un bel film fracassone con tanto di supereroi e wrestlers - Batista nel ruolo di Drax il distruttore - dalla risata facile che dovrebbe essere una sorta di ponte ideale tra il primo ed il prossimo Avengers.
Ovviamente non vedo l'ora, ed ovviamente non vedo l'ora che il mio antagonista soffra come un cane nel corso della visione e della recensione.



Boyhood

"Non ti preoccupare, Peppa, ti faccio un bel taglio alla moda!""Alla moda di quando, Ford? Del secolo scorso!?"
Cannibal dice: Uno dei progetti cinematografici più ambiziosi degli ultimi anni per uno dei film più promettenti dell'anno. 12 anni schiav... ehm, 12 anni di lavorazione per una pellicola che ci racconta il passaggio di tale Mason dalla fanciullezza fordiana all'adolescenza cannibale. L'ottimo Richard Linklater avrà firmato davvero un capolavoro, come si dice in giro, oppure l'hype creato porterà a un diludendo?
Ford dice: ho già sentito parlare di questo film e dell'ambizioso progetto di Richard Linklater. Onestamente, fino allo scorso anno non mi sarei scomposto troppo, ma dopo lo splendido Before midnight ed il recupero della trilogia dedicata alla coppia Hawke/Delphy, nutro grande fiducia in Boyhood.
Speriamo solo che il buon Richard non faccia il Cannibal e non mi deluda. Altrimenti saranno bottigliate!


The Judge

"Non provare mai più a dire che io e Ford abbiamo la stessa età: lui è molto più vecchio!"
Cannibal dice: Mentre i nuovi eroi della Marvel cercano di far dimenticare Iron Man, pure Robert Downey Jr. tenta la stessa impresa, con questo The Judge. Il film si preannuncia come un legal-drama ammerecano realizzato con grande professionalità. Una pellicola sicuramente guardabile, più difficilmente imperdibile. Per sapere comunque con certezza come sarà bisognerà attendere il severo giudizio cannibale, di certo più spietato rispetto a quello del buonista giudice Ford.
Ford dice: i film ammeregani patinati, di tanto in tanto, funzionano, soprattutto per le serate da divano da occupare con il minor impegno possibile. Downey Jr. mi è sempre stato simpatico, e i legal-drama hanno sempre esercitato una sorta di malsano fascino sul sottoscritto.
Direi quindi che una possibilità la concederò, seppur con il beneficio del dubbio.
A Peppa Kid, invece, non darei neppure la minima chance.


Soap Opera

"Forse non dovevamo metterci in mezzo ad una Blog War!"
Cannibal dice: Sto male al solo pensiero di vedere un altro film con Fabio De Luigi. Una volta mi stava parecchio simpatico, parlo dei tempi di Mai dire gol, ma da quando ho visto il terrificante La peggior settimana della mia vita non riesco a immaginare di guardare ancora qualcosa con lui come protagonista. Pure qui ritorna a fare coppia con Cristiana Capotondi, una che devo dire rivedo sempre e comunque volentieri. Ma qui no, perché insieme a loro c'è pure l'odioso Abatantuono e i soliti comici di Zelig a caso, in questo caso Ale e Franz.
Ma perché, Ale e Franz esistono ancora?
Ormai sono più passati di moda di Cannib-Ale e Ford.
Ford dice: agghiaccianti. Ho solo questa parola, per le operazioni commerciali giocate su comici o presunti tali italiane. Come se non bastasse, ad un Abatantuono sempre più in crisi, si aggiungono l'ormai insopportabile De Luigi e i già da parecchio insopportabili Ale e Franz.
Ci mancava il Cannibale, per rendere il quadretto assolutamente agghiacciante.


Buoni a nulla

"Vanno dicendo in giro che questo è un film!""Mi sa che tu le spari più grosse di Cannibal, amico mio!"

Cannibal dice: Altra commedia italiana, altra roba che si preannuncia buona a una sola cosa. Far ridere?
Sì, ma solo involontariamente. Come Ford.
Ford dice: altro film italiano. E altro film buono a nulla. Come Cannibal.


Il sale della terra
"Questa foto l'ho scattata ai tempi di Ford.""Esistevano già le macchine fotografiche!?"

Cannibal dice: Il titolo di questo documentario co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado evoca spiacevoli ricordi, quelli dell'inascoltabile canzone di Ligabue, il cantante preferito di Ford dopo brus sprinsti. Il risultato pare sia però più dalle parti di Terrence Malick e quindi le cose si potrebbero fare interessanti. Piacevolmente interessanti per me, spiacevolmente per Ford!


Ford dice: i documentari mi intrigano parecchio, e Wenders mi è sempre - o quasi - piaciuto molto. Nonostante, dunque, l'approccio molto radical potrei comunque concedere una possibilità. Cosa che non farò certo con il mio nemico, soprattutto dopo l'agghiacciante lista che è riuscito a propinarmi nella recente Blog War.


I funerali della Mamà Grande

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Autore: Gabriel Garcia Marquez
Origine: Colombia
Anno: 1962
Editore: Mondadori





La trama (con parole mie): attorno a Macondo, leggendario villaggio che ospiterà - anche se, temporalmente, qui ci ritroviamo decine di anni dopo quelle vicende - la storia dei Buendia di Cent'anni di solitudine, ruota un piccolo universo di umanità, miserie, vite spezzate e sogni vissuti ed infranti tipico della ribollente esistenza di noi ospiti della Terra.
Otto racconti illustrano altrettante storie unite dalla località in cui si svolgono, bagnate dal sudore di un caldo soffocante, visioni mistiche e profonda ed impietosa realtà: e dall'orgoglio della madre di un giovane ladro ucciso ai funerali in pompa magna della Mamà Grande, la più grande proprietaria terriera della zona, assistiamo alla costruzione di quelle che saranno le fondamenta dell'immaginario e dello stile di uno dei più grandi Autori del novecento.








Senza dubbio Garcia Marquez è stato uno degli Autori fondamentali della formazione di lettore e non solo del sottoscritto fin dai tempi della prima superiore, quando Cent'anni di solitudine mi lasciò senza parole, come ipnotizzato dalla bellezza struggente del realismo sfrenato che incontra la forza dei sogni e della passione.
Da anni, però, il buon vecchio Gabo non faceva capolino da queste parti - se non per la versione in una sola tavola a fumetti alla quale lavorai con un mio vecchio compare disegnatore e non solo, leggasi Tom, che prevedeva una riduzione proprio dell'opera più famosa dello scrittore colombiano -, e per celebrare in qualche modo la sua recente scomparsa ho deciso di recuperare dalla libreria un volumetto di racconti che, ai tempi, ricevetti in regalo da mio padre - che nella sua vita avrà letto si e no una decina di libri - nel mio periodo di pieno fervore letterario.
In realtà le otto piccole perle che compaiono in questa raccolta furono portate sulla pagina da Marquez prima ancora che venisse iniziata la stesura di quello che è universalmente noto e celebrato come il suo Capolavoro, nonostante molti riferimenti allo stesso siano già presenti - l'ambientazione a Macondo, successiva alle vicende dei Buendia, e le numerose citazioni di Aureliano -, quando ancora il vecchio Gabriel non era considerato come uno dei nomi più importanti della Letteratura moderna e, neppure trentenne, si affacciava solo in parte sulla scena internazionale.
Benchè in una certa misura acerbi e privi di una direzione precisa, comunque, i brevi scritti de I funerali della Mamà Grande mostrano già il talento assolutamente gigantesco di questo narratore, al quale basta una singola frase per mandare al tappeto senza possibilità di replica - ed in questo caso mi ricorda molto un altro grande, Fabrizio De Andrè, che in qualche modo potrebbe essergli associato anche nell'approccio alla materia umana - e che sfodera momenti assolutamente magici come quelli legati alla madre e alla figlia in treno nel primo racconto o alle visioni del parroco di Macondo della venuta dell'Ebreo errante, in grado di coesistere in un universo di parole tanto articolato e complesso quanto semplice, diretto e di pancia.
I ricordi dell'infanzia ad Atacama del romanziere si mescolano dunque alla materia "di cui sono fatti i sogni" regalando al lettore un viaggio vero e proprio grazie al quale non solo è possibile confrontarsi con le anime umane in molte delle loro sfumature - siano essere bieche o salvifiche -, ma anche osservare quanta magia può nascondersi anche nel quotidiano: e dal costruttore di gabbie per uccelli pronto a regalare ad un bambino capriccioso figlio di un potente la sua opera migliore alla Mamà Grande, celebrata da un Paese intero - e non solo - nell'ultimo racconto, assistiamo partecipi ad una parata di miseria e nobiltà, calore passionale e fredda solitudine, sudore e sangue, voracità e volontà di illuminazione quasi ascetica.
Come per magia, tra queste pagine, si finisce per ritrovarsi su un'amaca, nel pieno della siesta in un pomeriggio ardente nel cuore dell'America Latina, o all'ombra di stanze che custodiscono segreti e generazioni di Storia, o tra le lenzuola del letto di una donna che potrebbe rubarci il cuore o imprigionarci per sempre in una gabbia neppure troppo dorata: questa è la magia di cui è capace un narratore di razza, che per quanto ancora non all'apice della sua maturità ipnotizza come pochi altri hanno saputo, sanno e sapranno mai fare.
Nelle sua parole coesistono la forza dell'esperienza e l'arte del sogno.
E non è un binomio facile da incontrare: che si tratti delle strade polverose di Macondo, nel pieno di una visione apocalittica, all'apice di un orgasmo o tra le braccia avvolgenti dei ricordi di una vita intera.




MrFord



 
"Che ci fanno queste anime
davanti alla chiesa
questa gente divisa
questa storia sospesa
a misura di braccio
a distanza di offesa
che alla pace si pensa
che la pace si sfiora."
Fabrizio De Andrè - "Desamistade" - 







Kristy

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Regia: Oliver Blackburn
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
86'





La trama (con parole mie): Justine, un'universitaria con problemi di soldi impossibilitata a fare ritorno a casa per il Giorno del Ringraziamento, finisce per restare sola nel campus nel pieno delle vacanze. Dopo essersi goduta l'isolamento forzato e concentrata sullo studio, la ragazza decide di passare la serata della Festa mangiando schifezze e condividendo le stesse con le guardie di sicurezza del campus: quando, al market più vicino alla facoltà, viene avvicinata da una misteriosa fanciulla che non tarda a ribattezzarla Kristy, tutto cambia.
La giovane, infatti, è a capo di un gruppo che si diletta a prendere di mira, cacciare, uccidere e filmare persone da loro ritenute bersagli, simboli di qualcosa che odiano e desiderano distruggere.
Da quel momento in poi per Justine inizia una notte da incubo, attraverso la quale dovrà passare lottando con le unghie e con i denti per la propria vita.








Come tutti noi ben sappiamo - e ormai, purtroppo, appassionati e non - l'horror è senza dubbio ben lontano dal vivere una delle sue stagioni migliori, ed i titoli davvero interessanti - o almeno in parte tali - finiscono per essere merce sempre più rara, almeno quanto la sensazione di tensione e terrore provata nel corso della visione di una pellicola.
Non troppo tempo fa, grazie ad un paio di segnalazioni venute dalla blogosfera - sempre utilissima per scovare le purtroppo numerosissime opere che non vedranno, probabilmente, mai la luce, sala o home video che sia, in Italia - è giunto all'attenzione del Saloon questo Kristy, prodotto low budget - considerato lo standard a stelle e strisce - che ripesca dal bacino del survival e del thriller, cercando di mescolare le memorie dei vari Non aprite quella porta a cose strepitose come Eden Lake.
Senza dubbio siamo ben lontani dal valore di entrambi gli esempi appena citati - veri e propri cult -, eppure il lavoro di Oliver Blackburn funziona come pochi che siano capitati da queste parti negli ultimi mesi, riesce a trarre da uno spunto tutto sommato già sentito - il gruppo di psicopatici in caccia della protagonista solo apparentemente indifesa - un buon prodotto d'intrattenimento in grado di inquietare e sfruttare al meglio il setting - un campus universitario all'americana, con tanto di aree lounge, piscina, biblioteca e chi più ne ha, più ne metta possiamo solo sognarci qui - senza appesantire troppo il risultato finale grazie ad un ottimo ritmo, belle trovate - anche se telefonata, quella del "firework" dell'epilogo è davvero efficace -, un minutaggio giusto per questo tipo di titoli ed un approccio assolutamente senza pretese - se non, anche se solo in parte, nella spiegazione della natura delle aggressioni, forse agganciata nella speranza di poter lavorare ad un eventuale sequel in caso di successo ripercorrendo, di fatto, più le orme del recente brand dedicato a La notte del giudizio che non ad altri horror -.
Complice di questo successo - almeno considerate le premesse - sicuramente anche il cast, decisamente azzeccato sia per quanto riguarda la protagonista Haley Bennett che per l'inquietante leader della setta di aggressori Ashley Green, che finalmente abbandona i panni inguardabili della sensitiva della saga di Twilight per regalare al pubblico brividi veri, che tutti gli sbiaditi vampiri della nuova generazione possono solo sognare di procurare.
Interessanti anche gli sgherri mascherati della ex succhiasangue, caratterizzati benissimo nonostante, di fatto, non mostrino il proprio volto: certo, non tutte le cose funzionano alla perfezione - soprattutto in fase di scrittura -, eppure il risultato e l'impegno ci sono tutti, ed alcuni passaggi convincono senza ombra di dubbio - il supermarket iniziale, il confronto nel locale delle docce -, finendo per portare Kristy su un piedistallo rispetto a quelle che sono state le proposte di genere che ci sono toccate nel corso di questo duemilaquattordici decisamente scialbo, da questo punto di vista.
In un certo senso, si potrebbe dire che Blackburn sia riuscito a cogliere il fascino dello stile "fuori orario" pur non avendo ancora le carte in regola per giocarsela artisticamente a quei livelli - straordinari, nel caso dell'inarrivabile filmone di Scorsese -, sfruttando le sue carte al meglio e, se non altro, stuzzicando gli spettatori abbastanza affinchè salisse la curiosità di vederlo in azione di nuovo.
Considerati un campus deserto, mezzi limitati, un guardiano notturno interpretato da uno dei residuati del magnifico Six Feet Under, direi che si è già superata di parecchio la promozione.



MrFord



"I wake up
my shoulder's cold
I've got to leave here
before I go
I pull my shirt on
walk out the door
drag my feet along the floor
I pull my shirt on
walk out the door
drag my feet along the floor."
Vampire Weekend - "Campus" - 




Justified - Stagione 2

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Produzione: FX
Origine: USA
Anno:
2011
Episodi: 13





La trama (con parole mie): lo sceriffo federale Raylan Givens, chiusi i conti ed i sospesi con la mala di Miami che voleva la sua testa, decide di rimanere ad operare nella Contea di Harlan, in Kentucky, sua terra d'origine ed origine, di fatto, di molti dei suoi guai. Riconciliatosi con l'ex moglie Winona, l'uomo si trova ad affrontare non solo il ritorno della sua nemesi Boyd Crowder al crimine - e la nascita del legame tra quest'ultimo e la sua ex Ava -, ma anche l'ingombrante presenza della famiglia Bennett, da generazioni legata al commercio di erba e ad altre attività più o meno legali.
Vecchie ruggini e nuove sfide porteranno Raylan ben oltre i confini della Legge, sia che si parli di protezione di chi ama, sia che si tratti di portare a casa la pelle.
E quando si alzerà la polvere, solo un nome tra Bennett e Crowder potrà contare su un futuro.
Sempre che lo sceriffo Givens non dica la sua.








Negli ultimi anni, spesso mi sono chiesto, considerate le letture, i gusti, gli ascolti e chi più ne ha, più ne metta, come possa essere stato possibile per me nascere a Milano piuttosto che in qualsiasi paesino del Sud degli States, perso tra il nulla e l'addio, come direbbe Clint Eastwood, tra rednecks, sogni infranti, spazi apparentemente sconfinati, alcool e pistole.
Eppure, eccomi qui: dunque non resta che immaginare quello che sarebbe stato del sottoscritto attraverso le gesta di personaggi come Raylan Givens ed il suo rivale eterno Boyd Crowder, rispettivamente interpretati da Timothy Oliphant - perfetto per il ruolo - e Walton Goggins, vecchio idolo fordiano dei tempi di The Shield.
Iniziata decisamente in ritardo rispetto a quanto nelle mie corde sia e grazie ad un suggerimento del mio fratellino Dembo, Justified - nata da un racconto di Elmore Leonard, uno dei padri del racconto Western - è entrata subito nel cuore di casa Ford, con una prima stagione decisamente efficace ed una seconda che non solo ne raccoglie il testimone, ma che, di fatto, porta perfino più in alto il risultato - e le aspettative per la terza -: dai dialoghi che paiono scritti per il piacere del sottoscritto - "Hai una birra?""Birra? In questa casa beviamo superalcolici!", impagabile - al crescendo finale da dramma di Frontiera tutto funziona alla grande, e finisce per non fare sconti a nessuno da una parte e dall'altra della barricata, come una guerra senza vincitori o vinti.
Del resto, in luoghi come la Contea di Harlan le alternative non sono poi molte: tutore della Legge, criminale o minatore, con aspettative di vita basse in uno qualunque dei tre casi.
In questo senso, l'immagine di Raylan che, durante il funerale della zia, lancia un'occhiata alla sua lapide, già pronta per il giorno in cui una pallottola verrà a chiedere il tributo che la sua professione richiede, la dice lunga rispetto a quello che può offrire un West che ha ben poco dei sogni di gloria e di conquista dei tempi d'oro, quanto più della disperazione operaia e sociale che soltanto le aree dimenticate dalla "civiltà" delle grandi città riservano ai loro abitanti: gli stessi Bennett - di fatto, gli antagonisti principali di questa seconda annata - mostrano tutta la drammaticità e l'ironia del Destino dei luoghi in cui sono cresciuti, dalla dispotica eppure a suo modo sensibile matriarca Mags ai tre figli, lo scatenato Coover, il viscido Dickie e l'arrogante Doyle, pronti a mostrare il peggio dell'umanità ma anche, seppur distorto, un meglio legato ai concetti di famiglia ed affezione alla propria terra, quasi come se Via col vento fosse stato deformato da secoli di lotte operaie, alcool e proiettili pronti a scacciare via gli incubi di una vita ai margini.
Personaggi biechi e discutibili, eppure non meno discutibili di quanto potrebbe essere Raylan con il suo grilletto facile, pronto a mettere l'ultima parola rispetto alla vita di un criminale: il confine tra la Legge e l'Uomo è molto labile, ed io stesso comprendo che, in situazioni di questo genere, non saprei quale strada prendere: in fondo, Raylan e Boyd sono due lati della stessa medaglia, e la loro rivalità altro non appare se non l'espressione di un quasi affetto profondo, ed una semplice scelta rispetto ad una vita che non offre troppe direzioni a chi la vive.
Se fossi nato in una contea come quella di Harlan, in fondo, non so se sarei stato un Raylan, un Boyd o un semplice minatore.
Senza dubbio non sarebbe stato facile, in nessuno dei tre casi: in fondo parliamo di lotta per la sopravvivenza, di luoghi che richiedono un tributo pesante ai loro figli.
Quello che so, però, è che tornare per le strade battute da questi due tostissimi charachters continuerà ad essere un piacere, per quanto doloroso come un tatuaggio, o una cicatrice che diventa fonte di ricordi: del resto, se l'esperienza e la vita sono come benzina, per quelli come me, Justified ne è un'ottima rappresentazione.
Per quanto violenta, di confine e "tra il nulla e l'addio" possa essere.



MrFord



"And be a simple kind of man.
be something you love and understand.
baby, be a simple kind of man.
oh won't you do this for me son,
if you can?"
Lynyrd Skynyrd - "Simple man" -



The equalizer - Il vendicatore

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Regia: Antoine Fuqua
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 132'





La trama (con parole mie): Robert McCall è un uomo solitario con abitudini radicate e ben definite, dedito al ricordo della moglie ed alla riuscita nell'impresa di leggere i cento libri da "una volta nella vita" che l'amata non riuscì a portare a compimento, così come ad aiutare chiunque pensi ne abbia bisogno, fosse anche soltanto di una pacca sulla spalla.
Un uomo tutto d'un pezzo, protagonista di una vita goduta, ma all'apparenza anonima.
Peccato che, a dispetto dell'apparente normalità, Robert McCall abbia un passato da spaccaculi supremo dei servizi segreti che cerca con tutte le forze di non far tornare a galla, un pò come la sua incredibile capacità di fare fuori praticamente chiunque gli si ponga di fronte con l'idea di fermarlo ad una velocità da fare invidia agli Expendables tutti.
Quando una giovane prostituta nei guai con la Mafia russa conquista la sua simpatia, il buon Robert tornerà a rispolverare il suo io di un tempo, e per i malviventi ed il loro apparentemente intoccabile ed onnipotente boss inizierà un incubo senza fine.







Avete presente quel vecchio adagio che recita "l'uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto"?
Probabilmente, e per il sottoscritto, in questo momento non esiste altra definizione che questa, se rapportata ai film, per The equalizer.
Quando, qualche settimana fa, con il mio eterno rivale Cannibale parlammo dei titoli in uscita per il weekend che ci attendeva, bollai il lavoro di Fuqua come una cosetta da poco dalla quale non aspettarsi troppo, incuriosito soltanto dalla partecipazione del Denzellone di noi tutti e dall'idea del mio fratellino Dembo che si sarebbe trattato di una di quelle bombe come piacciono a noi vecchi Expendables: un rischio, dunque, ed una vera e propria scommessa vinta dall'appena citato Fuqua, autore di cose molto interessanti come Training day - che regalò l'Oscar proprio a Washington - o il piacevolissimo Shooter e di altre assolutamente terrificanti come Olympus has fallen.
The equalizer, infatti, ed in barba proprio a Sly e soci, potrebbe essere considerato ampiamente come il miglior action movie dell'anno, spassoso come pochi, implausibile, fracassone, tamarro e tosto come si conviene al genere, forte di un protagonista in spolvero incredibile e molto legato ad un impianto narrativo in pieno stile anni ottanta, i tempi in cui gli Schwarzy ed i Bruce Willis di turno facevano a gara tra un Die Hard ed un Commando a chi finiva per massacrare più criminali dal primo all'ultimo minuto di pellicola.
In questo senso raramente ho visto un main charachter - ovviamente tutto d'un pezzo, cazzuto, dal sangue freddo ma dal cuore caldissimo rispetto al raddrizzare i torti subiti dagli innocenti - dominare in modo così netto e devastante i suoi avversari, praticamente senza patire il confronto con i criminali di turno convinti di riuscire a metterlo con le spalle al muro - e qui torna sempre la tipica domanda retorica di casa Ford: ma se tu sei un cattivo di serie b di una tamarrata di questo genere, cosa ti farà mai pensare di poter avere anche la benchè minima possibilità di sistemare il Denzellone del momento? -.
Ad ogni modo, il buon Denz - che è in forma ottima, considerato che anche lui non è propriamente più quello di vent'anni fa - si concede non solo il bello ed il cattivo tempo con tutti i suoi avversari, ma anche di non fare affidamento sul sorriso da mascalzone e la favella mostrata in cose come il fantastico Inside man o il divertentissimo - ed altrettanto ben riuscito film action - Cani sciolti: il suo Robert è una sorta di lupo solitario, un samurai all'americana con pistola ed addestramento da corpo speciale cui anche il Jack Bauer migliore parrebbe fare un baffo, pronto a prendere le difese dei deboli e degli oppressi e a non lasciarsi intimidire neppure dal peggiore dei malvagi pronto a minacciare gli uomini timorati.
Il suo confronto con la nemesi nonchè agnello sacrificale Teddy, problem solver in stile Mr. Wolf della Mafia russa, al tavolo del ristorante in quello che è, di fatto, il preludio allo scontro decisivo, è il riassunto perfetto di questo film piuttosto lungo - ma per nulla noioso, sia chiaro -, senza fronzoli e tagliato con l'accetta neanche fosse i capelli a spazzola di Schwarzenegger ai tempi d'oro: Bene e Male uno di fronte all'altro in un locale affollato, con il primo che ricorda al secondo a quale posto dovrebbe accomodarsi, appoggiando il suo culo pesante e godendosi la cena per evitare di uscire allo scoperto e farsi asfaltare senza neppure bisogno di un pò di straordinari per chiudere la pratica.
Forse sarà tagliato con l'accetta e privo dell'ironia che questo tipo di pellicole hanno sfruttato - in alcuni casi alla grande - in tempi recenti, e non farà sfacciatamente leva sull'effetto nostalgia dei vecchi residuati come il sottoscritto che, in mancanza di alternative, finiscono periodicamente per rispolverare i dvd con protagonisti i vari Van Damme, Russell, Stallone, Seagal e chi più ne ha, più ne metta dei tempi, eppure The equalizer si avvicina clamorosamente alle atmosfere ed alla profonda sensazione di goduria che, a quei tempi, si provava quando ci si poteva immedesimare nel John McLane della situazione.
E ad ogni colpo menato dal Denzello, o torto raddrizzato al ritmo delle mazzate che il risvegliato Bob si riserva di dare ai cattivi, uno spettatore come me non può che saltare sulla poltrona con la stessa esaltazione ed il traboccante entusiasmo di quando, sul finire degli anni ottanta, si imitavano al parco le mosse dei propri beniamini, passati dall'essere cartoni animati a figure in carne ed ossa agli occhi del mondo adulto assolutamente implausibili eppure mossi da uno spirito che resta ancora oggi una chimera per tutti - o quasi - i registi pronti a percorrere questa strada tamarra senza dubbio, ma non per questo semplice o semplicistica.
E per noi amanti di botte, esplosioni e tutto ciò che è semplice, diretto e pane salame, una vera manna dal cielo.




MrFord




"Feels like a close, it's coming to
fuck am I gonna do?
It's too late to start over
this is the only thing I, thing I know."
Eminem - "Guts over fear" - 




Tutto può cambiare

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Regia: John Carney
Origine:
USA, Irlanda
Anno: 2013
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Dan, produttore discografico di mezza età in crisi lavorativa, sentimentale, d'ispirazione, incontra per caso nel corso dell'ennesimo appuntamento con l'alcool una giovane cantautrice spinta ad esibirsi in una serata "open mic" da un amico, innamorandosi della musica di quest'ultima.
Convinta la giovane a seguirlo in un'improvvisata avventura discografica, i due si troveranno ad assemblare una band di outsiders e registrare per le strade di New York, pronti a cogliere lo spirito della città e fonderlo con i brani scritti da Gretta, questo il nome della fanciulla, ancora ferita dalla storia finita con la nuova star del cantautorato Dave Kohl.
Quali strade la musica porterà i protagonisti di questa storia a percorrere?



Nonostante sia, senza ombra di dubbio, un musicista assolutamente mediocre, devo ammettere che la Musica stessa è stata, nella mia vita, una compagna di viaggio per certi versi più importante del Cinema: nel corso dell'adolescenza ha contribuito ad aiutarmi nei momenti più bui, ed è stata la colonna sonora che ha riempito i momenti migliori e peggiori del viaggio intrapreso fino ad oggi.
Più che quello di musicista, comunque, ammetto di aver spesso sognato di ricoprire il ruolo di produttore discografico, di fatto"il regista" di un disco, a prescindere dalla bravura e dall'intensità dei suoi interpreti: gente come Rick Rubin, giusto per citare l'uomo responsabile della rinascita anche commerciale di Johnny Cash negli anni precedenti alla morte, ha segnato il mio immaginario almeno quanto gli artisti pronti a prendersi la gloria e le copertine di album e riviste.
Da questo punto di vista, Tutto può cambiare - adattamento italiano assolutamente non riuscito del decisamente più interessante Begin again originale - è uno dei film che più è stato in grado - insieme ad Almost famous e Alta fedeltà - di descrivere tutto quello che è il mondo dietro il cantante o il gruppo che sale sul palco e regala al pubblico emozioni uniche: eppure, nonostante una buona confezione, un decisamente efficace Mark Ruffalo, una vicenda romantica assolutamente non scontata da blockbuster hollywoodiano - almeno nella sua risoluzione - ed una struttura legata a doppio filo alla colonna sonora, sono uscito dalla visione completamente distaccato, per nulla coinvolto, quasi come se il fatto di assistere oppure no allo spettacolo non avesse cambiato nulla o quasi della mia vita di spettatore.
Per usare un paragone musicale, potrei affermare che l'esibizione cui ho assistito non sia di fatto riuscita "ad arrivarmi" quanto altri titoli almeno ad una prima occhiata anche inferiori a livello tecnico e produttivo: i primi a non convincermi sono stati i due veri protagonisti, Keira Knightley ed il frontman dei Maroon Five Adam Levine, la prima troppo british nell'accento per poter rendere al meglio il ruolo di cantautrice alla scoperta di New York - senza contare le ormai insopportabili smorfiette da ragazza acqua e sapone che porta in dote non richiesta - ed il secondo decisamente troppo "confident" - anche se, considerato il charachter, potrebbe starci - ed autore di una serie di brani incapaci di fare davvero breccia, senza dubbio inferiori a quelli proposti con la sua band - che, comunque, in linea di massima non mi fa gridare al miracolo -. 
Molto meglio la giovane Hailee Steinfeld, in un ruolo marginale ma in grado di proiettarmi, nel rapporto con suo padre, nel pieno delle atmosfere che di norma si respirano in Californication e tra Becca e Hank Moody.
Ma è troppo poco per una pellicola che ha finito per raccogliere consensi un pò ovunque nella blogosfera e non, firmata dall'autore dell'ottimo Oncee che pur non essendo, di fatto, mal riuscita o più semplicemente brutta ha finito per attraversare il sottoscritto senza lasciare alcun segno: non so se sia una questione di età - se l'avessi vista una decina d'anni fa, forse, mi avrebbe toccato più in profondità -, di sensibilità o semplicemente di compatibilità, ma Tutto può cambiare è scivolato via senza lasciare alcuna traccia se non un interessante ritratto di una delle città più affascinanti del mondo - della quale conservo un ormai sbiadito ricordo di quell'ottobre millenovecentonovantaquattro, quando la visitai con gli occhi sgranati di fronte alla grandezza del mondo che iniziavo a provare sulla pelle - ritmata da una selezioni di canzoni decisamente troppo delicate per un palato come il mio.
Certo, considerato come sono andate le cose di recente, non ci troviamo di fronte alla peggiore delle uscite in sala, ma rimanendo in tema di classifiche, Musica e sensazioni, e per parafrasare il Rob del già citato Alta fedeltà, senza dubbio non mi sognerei neppure per sbaglio di considerare il lavoro di Carney degno di una qualsiasi "top five", positiva o negativa che sia.
E per un brano musicale, così come per un film, forse è una cosa addirittura peggiore rispetto ad una stroncatura adatta alle peggiori bottigliate.



MrFord
"You must remember this
a kiss is still a kiss
a sigh is still (just) a sigh
the fundamental things apply
as time goes by."
Frank Sinatra - "As time goes by" - 
 

35 times to be Ford

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La trama (con parole mie): oggi è il mio trentacinquesimo compleanno. Normalmente, e seguendo la tradizione del Saloon, farei il consueto punto della situazione tramite flusso di coscienza prima di abbandonarmi alla ormai classica dissertazione a proposito de Gli spietati, che ogni anno decido di rivedere proprio in questo giorno. Per questo giro di giostra, però, ho pensato a qualcosa di diverso che potesse raccogliere il testimone di un tentativo fatto qualche tempo fa che aveva finito per divertirmi parecchio: ho deciso dunque di pubblicare il secondo test fordiano della storia di White Russian, al quale mi piacerebbe vedervi tutti sottoposti - perfino, e forse soprattutto, il Cannibale -.
La cosa è semplice come dovrebbero essere tutte quelle pane e salame: dieci domande a risposta multipla che, a seconda della maggioranza di risposte che darete, definiranno a quale tipologia di eroe fordiano appartenete.
Non ci sono scelte giuste o sbagliate, solo quelle cui vi sentirete più vicini.
In alto i calici e bando alle ciance, dunque.
Fatevi sotto e stupitemi.







Prima di ogni altra cosa, però, ringrazio Julez per lo splendido artwork sull'immagine che apre il post e, ovviamente, per tutto il resto. Quello che si vede e quello che non si vede.
E poi il Fordino. Per dirla "alla Balboa", averti è stato come nascere un'altra volta.



1) Da bravi ed impavidi fordiani, vi apprestate a fare il vostro ingresso in un locale per la consueta e robusta serata alcolica con i fiocchi, conquistando immediatamente il bancone: cosa ordinate?

A) Bourbon. Liscio.
B) La cosa più forte che possano servire.
C) Whisky di malto almeno dodici anni. Con un bicchiere di acqua gelata a parte.
D) Un White Russian.


2) Essendo dei predatori amanti della caccia, vi ritrovate attratti da una fanciulla. E lei da voi. La location potrebbe essere sempre quella del locale, o immaginate il setting che volete. Il succo è: come approcciate?

A) Non mi muovo da dove sono. Lo sguardo resta fisso su di lei, e se lei vorrà, verrà da me.
B) A grandi passi colmo la distanza, mi siedo accanto a lei e vado dritto al punto.
C) E' solo l'inizio della serata. Arriveranno il tempo e l'occasione giusti.
D) Sfoggiando il più scaltro dei sorrisi avanzo a passo lento, senza consumare energie in eccesso: un paio di perle alcoliche e la mia innata stronzaggine faranno il resto.


3) La Musica è una componente importante, della vita al Saloon. Almeno quanto il Cinema. Per tenere alto il morale e scuotere un pò l'anima, scegliete:

A) The man in black di Johnny Cash.
B) Thunderstruck degli AC/DC.
C) Born to run di Bruce Springsteen.
D) Mr. Bad Example di Warren Zevon.


4) Una volta superato lo scoglio della rottura del ghiaccio, quale risorsa è la vostra arma migliore per giungere con successo alla conquista della serata?

A) Il fascino della sicurezza in se stessi.
B) I muscoli resi gonfi dall'allenamento quotidiano.
C) Lo sguardo un pò triste del viaggiatore solitario.
D) Una volta rotto il ghiaccio, è tutto in discesa. Praticamente siamo già a letto.


5) Essere fordiani implica anche una grande passione per il viaggio. Quale sarà la vostra prossima meta?

A) Il Gran Canyon, con una Cadillac, la strada lunga e dritta, la chitarra e una bottiglia.
B) Ho sentito che c'è parecchio movimento in Medio Oriente con i ragazzi dell'Isis. Penso di fare un salto laggiù per calmare un pò le acque.
C) Australia: natura incontaminata e gente pronta a ricominciare a costruire quasi da zero.
D) Messico: tequila, oceano e senoritas.


6) Il vostro nemico si erge di fronte a voi - a meno che non sia quel pusillanime del Cucciolo Eroico -: quale arma userete per dargli una bella ripassata?

A) Ho un paio di pistole che non vedono l'ora di fare fuoco.
B) Due o tre calci rotanti ben assestati, e tutti a casa.
C) Prima valuto, e intanto ne incasso almeno un paio. Attraverso un momento di difficoltà e dunque, nel nome del riscatto, chiudo la pratica con un Ram Jam.
D) Non alzo un dito. Per sistemare l'ominide bastano cervello lesto e lingua lunga.


7) Quale rimane il vostro decennio preferito?

A) Gli anni ottanta. Dell'ottocento.
B) Gli anni ottanta. Unici e soli.
C) Gli anni settanta.
D) Gli anni zero. Ma non è detto che, con il carburante giusto, non si possa anche viaggiare nel Tempo.


8) Come finisce la vostra serata ideale?

A) Sul portico di casa, con un bicchiere e un sigaro.
B) Una bella rissa da bar.
C) Il tramonto, una canzone malinconica, il sogno di una vita piena e felice.
D) A letto con due donne. Magari sbronzo.


9) Da qui a una quarantina d'anni, come vi vedete?

A) Avete presente Walt Kowalski?
B) In forma almeno quanto sono ora. Giusto con qualche ruga in più.
C) Completamente preso dalla mia famiglia, che sarà numerosa e ricca di figli e nipoti.
D) "Il Drugo sa aspettare", amico. E saprà anche invecchiare.


10) Si chiude con i massimi sistemi: pregio e difetto in coppia. Quale tra queste vi caratterizza maggiormente?

A) La presenza e il distacco.
B) L'energia e il caos.
C) La sensibilità e la fragilità.
D) L'ironia e la dipendenza.



MrFord



Maggioranza di risposte A: IL COWBOY

Siete tipi tutti d'un pezzo, non amate girare attorno alle cose, date l'impressione di essere delle guide, ma nessuno ha davvero il coraggio di dirvelo per paura di essere scacciato in malo modo.
In un certo senso, siete i più pane e salame tra i pane e salame.
Fordiani appartenenti a questa categoria: Johnny Cash, John Wayne, John Ford, William Munny, Rylan Givens.




Maggioranza di risposte B: L'EXPENDABLE

Tamarri, residuati dei gloriosi eighties, casinisti, sempre sopra le righe. Voi, il basso profilo non sapete neppure dove sta di casa. Genuini quanto irruenti.
Per voi non esiste altro che l'azione, e quando non si tratta di pompare i muscoli il primo obiettivo è quello di passare il tempo a combinare guai con i vostri compagni di testosterone.
Fordiani appartenenti a questa categoria: Arnold Schwarzenegger, Jean Claude Van Damme, Barney Ross e gli Expendables, John McClane, tutti i gruppi hair metal anni ottanta.




Maggioranza di risposte C: L'OUTSIDER

Goonies cresciuti, voi siete quelli che, di norma, per arrivare al successo o ad una qualsiasi conquista si devono fare un culo da record, mangiando merda fino alla nausea per poter assaporare il successo. Siete gli uomini di fatica del Saloon, i suoi maratoneti, i veri viaggiatori della Frontiera.
Fordiani appartenenti a questa categoria: Bruce Springsteen, Rocky, Randy The Ram, Sylvester Stallone, Matthew McConaughey.



Maggioranza di risposte D: IL DEGENERATO
Siete l'anima della festa, il playboy impenitente, il tipo figo che le donne vogliono portarsi a letto e gli uomini avere sempre accanto per una serata divertente. Ma siete anche degli inguaribili stronzi egoisti. Il vostro fascino rischia di svanire la mattina dopo una notte da leoni, e voi che siete svegli e lo sapete per allora siete, di norma, già lontani parecchio, in cerca di un'altra preda.
Fordiani appartenenti a questa categoria: Warren Zevon, Charles Bukowski, Hank Moody, il Drugo, Barry Lyndon.


Thursday's child

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La trama (con parole mie): nuova settimana di uscite in sala, vecchi conduttori di rubrica. Da una parte la solida certezza del vecchio cowboy, dall'altra l'inquietante presenza dello sbandato Cannibale. Se non altro, alle spalle settimane quasi completamente inutili, a questo giro di giostra potremmo trovarci di fronte ad un buon numero di titoli potenzialmente interessanti, almeno sulla carta.
Non temete, ad ogni modo: troverete le consuete schifezze - italiane, ovviamente, ma non solo - a rendere il weekend cinematografico degno della distribuzione nostrana.

"Chris Martin mi fa una pippa! Anzi, meglio che me la faccia Jennifer Lawrence!"


Una folle passione

"Peppa, è inutile mandare avanti i tuoi compagni di classe per cercare di intimorirmi: Ford è mio e resta mio!"

Cannibal dice: Un film con Jennifer Lawrence va visto e basta. Questo melodrammone storico rischia però di essere tra le mosse meno brillanti della sua carriera. Peggio di quella di aver deciso di mettersi con Chris Martin, anche se per fortuna tra loro pare sia già finita. Quanto al film spero di sbagliarmi, ma ho l'impressione che l'accoppiata J-Law + Bradley Cooper questa volta non riuscirà a ripetere i fasti de Il lato positivo e nemmeno avvicinarsi al non troppo riuscito American Hustle. La folle (anzi, la più che ragionevole) passione per Jennifer Lawrence mi spingerà a guardarlo comunque e a cercare di non stroncarlo. Tanto per quello c'è sempre la mia altra passione: massacrare i film consigliati da Ford.

Ford dice: Jennifer Lawrence è una delle poche certezze della vita in grado di mettere d'accordo perfino me e Peppa Kid. Penso ci metterebbe d'accordo al punto di lavorare in tag team per scassare di legnate Chris Martin e chiunque a parte noi osi avvicinarsi alla signorina in questione.
Detto questo, il film non mi ispira neanche per sbaglio, ma penso mi sacrificherò per dovere di Lawrence.



Frank
 
"Vorrei dedicare questo pezzo alla groupie numero uno della blogosfera: Katniss Kid!"

Cannibal dice: Il folle tizio mascherato Frank è già passato a trovarmi. No, non mi riferisco al coniglione di Donnie Darko, né a un wrestler mandato da Ford, bensì al nuovo misterioso personaggio interpretato da Michael Fassbender.
Presto verrà a trovare anche voi...
Ford dice: onestamente non so cosa aspettarmi, da questa nuova incarnazione di Fassbender. Il film, però, è in rampa di lancio, e presto arriverà al Saloon.
Saranno bottigliate o brindisi?



Dracula Untold

 
"Dobbiamo darci da fare, Peppa: altrimenti ce lo scordiamo, di essere scritturati per Game of thrones!"
Cannibal dice: Dracula Untold? Sento già il sapore non del sangue, bensì dell'ennesimo fantasy-action vampiresco cui infilare un paletto nel cuore così, per precauzione, senza manco vederlo. Come a Ford appena cerca di avvicinarsi.
Ford dice: questo Dracula untold mi pare perfino meno interessante di Cannibal untold, la vera storia del coniglione numero uno della blogosfera. Fate voi.



#ScrivimiAncora

"Dici che siamo più romantici di Ford e Cannibal?""Impossibile."

Cannibal dice: Nonostante il titolo italiano ggiovane e tecnologico quanto il mio blogger rivale, questa pellicola irlandese con protagonisti i due teen idols Lily Collins e Sam Claflin mi pare piuttosto promettente. Quando si tratta di romcom, il Regno Unito sa stupire e in genere in positivo, come dimostrato di recente con Questione di tempo. Persino quel finto duro di Ford dovrà ammetterlo.
P.S. Ford #NonScrivere+
Ford dice: secondo film della settimana dal quale non so cosa aspettarmi. Sulla carta potrebbe essere anche interessante, o almeno fornire un punto di vista diverso sulla romcom rispetto ai soliti blockbuster, ma so già che il mio rivale avrà l'hype a mille, e questo mi spaventa non poco.
Staremo a vedere.



La spia – A Most Wanted Man

"Andiamocene dalla sala prima che quel Ford ci prenda a bottigliate!"
Cannibal dice: Film visto da pochissimo e recensione in dirittura d'arrivo.
Cosa dirà?
Sono mica scemo che faccio la spia su me stesso. In compenso posso fare la spia sul mio blogger nemico Ford, anticipandovi cosa dirà la sua recensione: delle gran cacchiate come al solito.
Ford dice: ultimo film del compianto Philiph Seymour Hoffman, come sta ampiamente ricordando la campagna pubblicitaria, e a mio parere non proprio il modo migliore per andarsene in bellezza. Non l'ho ancora visto, ma sento puzza di film di spionaggio da salotto noioso e bolso.



Annie Parker
 
"Cannibal Kid? Le prescrivo un paio di film fordiani al giorno, sperando che possa riprendersi dall'incompetenza cinematografica."

Cannibal dice: Indie movie americano con un bel cast (Helen Hunt, Samantha Morton e Aaron “Jesse Pinkman” Paul) che racconta la vera storia di Annie Parker e della sua lotta contro il cancro al seno. Una battaglia più dura della mia contro Ford. Una vicenda interessante, ma sarà anche una pellicola cinematograficamente interessante?
Ford dice: cerco sempre di prendere con le molle i film legati a grandi tragedie, malattie ed affini, considerato il sempre alto rischio di retorica.
Cerco anche di prendere sempre con le molle le discutibili opinioni del mio antagonista, dunque credo attenderò di leggere la sua recensione per capire se questo film varrà una visione, oppure no. E come avrete già intuito, ho intenzione di orientarmi al contrario rispetto a quello che penserà lui.



Ritorno a l'Avana
 
"Ecco la scorta di rum per festeggiare il compleanno di Ford!"

Cannibal dice: Il regista Laurent Cantet è una incognita gigantesca. Dopo aver girato con classe il notevole film Palma d'Oro La classe, ha realizzato il noioso e dimenticabile Foxfire – Ragazze cattive e adesso pure questo Ritorno a l'Avana, una specie di Grande freddo ambientato a Cuba, non sembra così imperdibile, ma anzi pare più una visione da nostalgici fordiani. Chissà però che il cinema francese non torni a regalarci una piacevole sorpresa.
Ford dice: Cantet è un regista incostante, eppure di grande talento. Onestamente questo Ritorno a l'Avana mi pare una mattonata che neppure io potrei sopportare, specie in un periodo decisamente impegnativo a livello di quotidianità come quello dell'inserimento al nido del Fordino. Dunque, almeno per il momento, lascerò in standby.



Pelo Malo

"Peppa, ti ho detto che fino a quando non sarai maggiorenne il rum di Ford potrai proprio scordartelo!"

Cannibal dice: Un film venezuelano che dal trailer non sembra nemmeno malaccio.
Sarà la rivelazione della settimana?
E soprattutto mi chiedo: ma Ford ancora una volta si confermerà il pirla della settimana?
Ford dice: se non altro, dopo una serie di settimane a dir poco agghiaccianti, cominciamo quantomeno ad avere proposte in sala che potrebbero perfino avere una buona possibilità di rivelarsi sorprese piacevoli.
Cannibale, invece, resterà sempre la solita, terrificante certezza.



Confusi e felici
 
"Interessante questo nuovo sport: tiro al Cannibale!"

Cannibal dice: Solita commediola italiana da evitare?
Su questo sia Ford che io non siamo confusi e rispondiamo con un sì in coro. Inoltre, entrambi non siamo felici. Di avere una rubrica in co-abitazione.
Ford dice: oltre a Jennifer Lawrence, esiste un'altra cosa al mondo in grado di mettere d'accordo il sottoscritto e Cannibal. Il Cinema italiano di bassa qualità.
Qui ne trovate un perfetto esempio.



Last Summer

"Le proposte di Cannibal sono così terribili che non posso fare a meno di buttarmi di sotto."
Cannibal dice: L'astuzia dei distributori italiani è sempre più palese. Roba da far invidia al Ford dei tempi peggiori, cioè quello attuale. Nel weekend di Halloween si è infatti deciso di non fare uscire manco un horror, che sarebbe stata una mossa commercialmente troppo furba, per dare invece in pasto al pubblico questo piccolo film italiano intitolato Last Summer. Che poi magari non è nemmeno troppo male, ma con 'sto tempo da castagne chi c'ha voglia di andarsi a vedere un film con un titolo del genere?
Ford dice: ormai, i nostri distributori, oltre ad adattare titoli con un criterio alquanto discutibile, distribuiscono con un approccio anche peggiore.
E dopo C'era una volta in estate, ecco Last summer arrivare in tempo per le prime castagnate. Geniale.



Un fantasma per amico

"Ciao, sono Peppa, il fantasma buono. Mi raccomando: non rivelate a Ford della mia esistenza!
Cannibal dice: Sempre meglio un fantasma, che un Ford per amico. Okay, su questo credo non ci siano dubbi. Così come non ci sono più dubbi sulla schizofrenia di chi decide le uscite nelle nostra sale, in cui nella settimana di Halloween l'unico film vagamente in tema è 'sta robetta fantasy tedesca che si preannuncia più infantile dei filmini di solito adorati dal mio Ford per nemico. Auf wiedersehen!
Ford dice: purtroppo mi sono già sorbito allo sfinimento il trailer di questa robetta dalla qualità simile a quella dei telefilm tedeschi - del resto, l'origine è quella -, martellato a tutta caldara sui canali come Boing e K2, e certo non ho alcuna intenzione di gettarmi a capofitto in una visione praticamente suicida.
I fantasmi, per festeggiare Halloween, dovrebbero fare una visitina agli autori di questa roba.
A Peppa Kid, invece, penserò io.


Gli invasati

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 Regia: Robert Wise
Origine:
USA, UK
Anno: 1963
Durata:
112'




La trama (con parole mie): il Dottor Markway, studioso di fenomeni paranormali, costruisce una squadra di esperti del settore da affiancare a persone che abbiano avuto esperienze dirette o indirette con l'occulto in modo da esplorare un'antica dimora del New England fin dalla sua costruzione teatro di eventi nefasti ed apparentemente inspiegabili.
Rimasto, a causa di defezioni nate dal timore, in compagnia di due sole donne, Eleanor e Theodora, alla prima esperienza di questo tipo, e raggiunto dalla moglie, Markway si troverà a far luce sul misterioso luogo spalla a spalla con il giovane che l'ha ereditato, diffidente rispetto a tutto quello che allo studioso pare ovvio.
La verità sulla magione cambierà le vite dei protagonisti dell'indagine, e porterà in dote una serie di circostanze terrificanti almeno quanto quelle delle quali la dimora è stata negli anni testimone indiretta.





Questo post partecipa, brividi di terrore ed urla pronte a squarciare il silenzio, all'Halloween Special della blogosfera cinefila.


 


Era il millenovecentoquarantasei quando il mondo del Cinema fu letteralmente scosso da quello che ancora oggi è considerato uno dei suoi Capolavori più importanti e clamorosi: Quarto potere.
Orson Welles, allora solo ventiseienne, diresse, interpretò e scrisse un'opera monumentale e tecnicamente spaventosa: eppure, alle sue spalle - e come sua spalla - si trovava un altro elemento geniale certamente meno noto del futuro ed "infernale" Quinlan, Robert Wise, che montò Citizen Kane creando, di fatto, uno standard che difficilmente ancora oggi viene eguagliato.
Proprio lui, qualche anno dopo la realizzazione di quella pietra miliare, tentò la strada della regia regalando al pubblico uno dei capostipiti - se non il capostipite assoluto - dei ghost movies: Gli invasati.
Girato in una cornice più simile ai Classici inglesi in stile hitchcockiano - Rebecca la prima moglie su tutti -, privo di effetti speciali visivi e giocato quasi esclusivamente sul mistero, la tensione, l'atmosfera e soprattutto gli effetti sonori - prodigiosi ancora oggi -, The haunting - questo il titolo originale - rappresenta anche ad oltre cinquant'anni dalla sua realizzazione un titolo che guarda al futuro, ispiratore di molti altri decisamente più noti - qualcuno ha detto The others? - e di registi evidentemente affascinati dal mondo che Marway ed i suoi improvvisati compagni di ricerca si trovano ad affrontare tra le mura di casa Crane - Guillermo Del Toro, per citarne uno non proprio poco noto -.
In particolare il lavoro ed i dettagli legati a tutti i rumori provocati dalla vecchia magione pronti a far drizzare i peli sulla nuca dei protagonisti - e non solo - costituiscono una lezione da scuola di Cinema, ed un esempio insuperato dell'utilizzo del non visto, oltre che del non detto e rivelato, per tenere lo spettatore sulla corda dai primi minuti fino alla risoluzione del mistero.
Come se non bastasse, inoltre, un'atmosfera come raramente se ne sono respirate nel genere, Gli invasati mostra anche il suo lato più razionale ponendo il pubblico di fronte al binomio suggestione/realtà che è alla base di ogni credenza sovrannaturale, e forse della nostra Natura di Uomini.
Cosa nascondono, infatti, le visioni e le suggestioni, gli incubi e le paure, se non una sorta di interpretazione della realtà? E cosa rappresenta un oggetto - o meglio dire un luogo come casa Crane - divenuto parte integrante di una storia, del percorso che il Destino pone di fronte, inesorabile, ai suoi protagonisti?
In un certo senso, la tesi di Wise e di questo suo straordinario lavoro sta nell'ammissione dell'esistenza del sovrannaturale come fatto estremamente naturale e"vero" - e non come lo starete immaginando ora, figurandovi chissà quali scene o visioni apocalittiche ed agghiaccianti -: esempi perfetti, per quanto praticamente opposti per indole e direzione presa nel corso della pellicola, il giovane Luke, destinato a prendere possesso della casa - un quasi irriconoscibile Russ Tamblyn, che molti di noi ricorderanno più per l'inquietante Dottor Jacobi di Twin Peaks più o meno trent'anni dopo - e la vulnerabile Eleanor, influenzata dalla casa fin dal suo arrivo, e forse resa ancora più sensibile dalla fuga verso la "libertà" operata ai danni della sorella.
La verità, forse, è che il sovrannaturale siamo noi, più terribili e spaventosi di quanto non appaia fino a quando non si decide di ricambiare lo sguardo dell'abisso: ce lo insegnano, prima ancora dei film d'orrore e le storie di fantasmi, la cronaca nera, i bassi istinti, le esplosioni di rabbia e necessità predatoria dei serial killer.
Difficile scappare dalla nostra Natura, o quantomeno dal suo lato più incontrollabile.
Markway e i suoi finiscono per provarlo prima come una suggestione, dalle orecchie alla mente, poi come un'effettiva messa in atto della minaccia del Fato.
Che, contrariamente a quanto non si possa essere portati a pensare, non ha il volto spettrale ed austero di casa Crane.


"Choose they croon the Ancient Ones
the time has come again
choose now, they croon
beneath the moon
beside an ancient lake
."
The Doors - "The ghost song" - 



      

C'era una volta a New York

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Regia: James Gray
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 120'




La trama (con parole mie): siamo nel 1921 a Ellis Island, ultimo bastione del controllo dell’immigrazione dei tempi sulla costa Est statunitense. Eva e sua sorella, venute dalla Polonia, sono separate in quanto la seconda risulta essere malata, mentre la prima, abbandonata dagli zii che si erano ripromessi di venire a prendere le giovani per offrire loro un alloggio ed un lavoro, viene approcciata dal losco Bruno, che si offre di aiutarla celando i suoi secondi fini, che prevedono lo sfruttamento della ragazza come prostituta.
Il rapporto tra i due pare una continua lotta, e quando l’illusionista Orlando, cugino di Bruno, entra nell’equazione, la situazione si complica prima di precipitare: Bruno ed Eva saranno costretti a fare fronte comune e scoprire il significato di riscatto e perdono nella speranza di poter sopravvivere ad un tempo ed una città pronti ad inghiottirli.








James Gray, fin dai tempi dell’ottimo esordio Little Odessa, rappresenta non solo uno dei favoriti del Saloon, ma anche uno dei cantori più importanti dell’area di New York, allo stesso modo – con le dovute proporzioni – in cui lo furono prima di lui autori come Scorsese, soprattutto agli esordi – indimenticabili, a parte il celeberrimo cult Taxi driver, Mean streets ed il successivo Fuori orario -: con il dittico The Yards e I padroni della notte, poi, Gray dipinse un affresco durissimo e drammatico della provincia che ribolle oltre i confini della Grande Mela, prendendosi il tempo di scrivere una delle storie d’amore più devastanti del Cinema recente con Two lovers.
C’era una volta a New York – adattamento pessimo dell’originale The immigrant – muove un passo indietro nel tempo per soffermarsi su una delle epoche più affascinanti che caratterizzarono la città che non dorme mai, la stessa di Capolavori come C’era una volta in America – che temo abbia giustificato la scelta dei titolisti nostrani – e dei grandi gangster movies ambientati ai tempi del proibizionismo: in bilico, però, tra crime story e romance, James Gray pare perdersi in quello che, nonostante l’indiscutibile perizia tecnica e resa a livello di immagine – la fotografia è senza dubbio splendida, così come la scelta delle inquadrature e la cura dei costumi -, rappresenta forse il suo primo, vero passo falso, un’incompiuta decisamente troppo lunga e verbosa nella prima parte e frettolosa nella seconda, paradossalmente la più riuscita.
Considerando, infatti, un eventuale pressione dei distributori rispetto ad una versione iniziale decisamente più lunga, anche a distanza di qualche giorno dalla visione non riesco a capire e condividere la scelta del regista di proporre un introduzione inutilmente dettagliata e dilatata lasciando soltanto le briciole – ed un montaggio tagliato con l’accetta – alla conclusione, pronta a sfoderare gli acuti migliori – e gli unici – della pellicola – il tema del perdono e quello del riscatto, rappresentati dai due protagonisti, sono gestiti davvero alla grande, e lasciano senza dubbio il segno -, liberando al contempo le ottime prove di Joaquin Phoenix e Marion Cotillard, che seppur lontana dai fasti di Un sapore di ruggine ed ossa conferma il suo talento anche privata delle doti più “evidenti”.
Meno in parte e convincente Jeremy Renner, che continuo a pensare dovrà ringraziare Kathryn Bigelow vita natural durante per averlo proposto in The hurt locker aprendogli le porte della ribalta internazionale nonostante doti decisamente nella media – se non inferiori – rispetto a suoi colleghi condannati ad un’attesa perenne di riconoscimenti prestigiosi – ne sa qualcosa Leonardo Di Caprio -.
Un dramma a tinte fosche ed una storia di strada che incrociano la mitologia di Sergio Leone con quella del già citato Scorsese, senza per questo rinunciare a dettagli legati alla letteratura classica – assistiamo, di fatto, ad una versione adulta di una sorta di Oliver Twist al femminile – e alla poetica del regista – l’importanza della famiglia, le radici legate alla Fede, il peccato che lastrica la strada per la salvezza – senza però liberare il talento di Gray come altri suoi lavori, finendo per pesare sul pubblico e non avvincere nella misura in cui, probabilmente, lo stesso Gray avrebbe voluto.
Un’occasione mancata, dunque, seppur con grande stile, ed un mezzo passo falso commesso da un regista dal quale, ormai, qui al Saloon ci si aspetta non solo molto, ma anche la definitiva ed assoluta consacrazione: e non bastano un paio di sequenze da urlo – l’inseguimento nei tunnel, la confessione di Eva ed il suo confronto finale con Bruno, il faccia a faccia decisivo tra quest’ultimo e Orlando – per definire un film epocale.
C’era una volta in America è irripetibile.
Anche per un newyorkese appassionato come Gray.




MrFord



"These vagabond shoes
are longing to stray
right through the very heart of it
New York, New York."
Frank Sinatra - "New York, New York" - 





 

Fuori di testa

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Regia: Amy Heckerling
Origine: USA
Anno: 1982
Durata: 90'





La trama (con parole mie): siamo nei primi anni ottanta in California, e gli studenti della Ridgemont High si preparano ad affrontare l'ennesimo tour de force scolastico. Per alcuni sarà l'ultimo, per altri il primo a portarli dall'altra parte della barricata e, dunque, nel pieno della vita da "adulti": assisteremo dunque alle peripezie sessuali e sentimentali di Stacy Hamilton, perplessa sulla prima volta e dunque alla ricerca di una storia d'amore, più che del sesso, e di suo fratello Brad, sconvolto dalla perdita del lavoro e della fidanzata storica, alla ribellione pacifica e casinara di Jeff Spicoli e dei suoi compagni dediti al surf e alle droghe leggere, alle teorie di conquista di Rat e Mike, prima che l'età adulta li proietti in un mondo che ancora conoscono soltanto in superficie, e che finirà per far sentire loro la mancanza dei tempi dei banchi di scuola.








Avete presente quei libri che, a giudicare dalla copertina, promettono vere e proprie scintille ma che, purtroppo per il lettore, una volta iniziata l'avventura tra le pagine si rivelano veri e propri fuochi di paglia? Se esistesse un corrispettivo cinematografico per questo tipo di esperienza Fuori di testa - lavoro di gioventù di Amy Heckerling, più nota per aver portato sullo schermo, tempo dopo, i titoli del brand Senti chi parla - ci starebbe dentro con tutte le scarpe.
Cast delle grandi occasioni - anche se allora si trattava solo di giovani promesse -, da Sean Penn a Jennifer Jason Leigh, passando per Judge Reinhold, Phobe Kates, Forest Whitaker, atmosfera eighties da far venire un groppo in gola a chi quegli anni li ha vissuti e chi, sfiorandoli, ha finito per sognarli, colonna sonora da urlo: eppure il risultato è tra i più piatti che uno dei decenni più scintillanti in materia di teen ed action movies abbia mai regalato al pubblico.
Probabilmente le colpe principali andrebbero imputate allo script, che parte dai presupposti del film corale per poi perdersi in vicende quotidiane senza mordente e completamente slegate l'una dall'altra, prive del sentimento e del pathos che l'epoca meriterebbe - paradossalmente, un film recente che è riuscito a coinvolgermi molto più di questo pur omaggiandone, di fatto, i tempi, è stato Take me home tonight - e lontane dalla qualità che i lavori del suo autore - un certo Cameron Crowe - avrebbero raggiunto in seguito - una su tutte, Almost famous -.
Un vero peccato, dunque, perchè se c'era un titolo sul quale potevo puntare nella selezione di teen movies imposti al sottoscritto dal rivale di sempre Cannibale era proprio questo, svanito invece come una bolla di sapone in un pomeriggio estivo senza lasciare un segno che non fosse la nostalgia per aver, di fatto, passato un'ora e mezza ad osservare una cornice senza quadro, o aver preso parte ad una festa sulla carta selvaggia con una selezione musicale da sbronza del secolo alla quale gli organizzatori hanno finito per dimenticare gli inviti. 
Eppure, ad essere onesti, le potenzialità c'erano tutte, da una Jennifer Jason Leigh passata da verginella a giovane avventuriera del sesso prima di scoprire di volere più di ogni altra cosa una vera storia d'amore al suo rapporto con la migliore amica Linda - lasciata troppo sullo sfondo, considerata la cotta che Brad, fratello di Stacy, ha per lei ed il rapporto da presunta "navigata" che mantiene con la stessa Stacy - ad uno Sean Penn simbolo della ribellione pacifica dei surfisti rispetto agli schemi della scuola e delle istituzioni, con tanto di quasi riconciliazione finale con l'odiato professore di Storia - altro charachter che avrebbe meritato maggiore spazio -: probabilmente, ai tempi, la priorità della produzione fu quella di confezionare un titolo che entrasse a far parte del filone divertito e divertente che aveva inaugurato Animal House senza, però, avere lo stesso appeal di titoli divenuti, con il passare del tempo, veri e propri cult.
Peccati di gioventù, dunque, per la Heckerling e Crowe, che entrambi, pur senza eccellere particolarmente, avrebbero finito per lasciarsi alle spalle in seguito, e tutti assolutamente perdonabili: resta però indubbio il poco carattere di questo Fuori di testa che tanto fuori non è, ed al quale non penserei di certo dovendo immaginare a mia volta una manciata di titoli simbolo tra i teen movies.
E approfittando di un genere che, al contrario, è più congeniale al Saloon e al sottoscritto, direi che il diritto di fregiarsi di questo adattamento è, resta e resterà saldamente in mano allo splatter davvero oltre ogni limite che Peter Jackson confezionò qualche anno dopo settando uno standard cui gli amanti dell'horror guardano con ammirazione ancora oggi.
Ma questa è un'altra storia.




MrFord




"She's got to be somebody's baby;
she must be somebody's baby;
she's got to be somebody's baby.
She's so....
She's gonna be somebody's only light.
Gonna shine tonight.
Yeah, she's gonna be somebody's baby tonight."
Jackson Browne - "Somebody's baby" - 




Boyhood

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Regia: Richard Linklater
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 165'





La trama (con parole mie): Mason è un bambino figlio di genitori separati che vive con la madre e la sorella in Texas. Quando il padre fa ritorno dall'Alaska dopo più di un anno di lontananza in parallelo al suo trasferimento con il resto della famiglia sfruttato in modo da permettere alla mamma di riprendere gli studi, comincia un percorso che ci porterà a seguirlo fino ai diciotto anni, la fine delle superiori e l'inizio del college.
Attraverso le storie dei due genitori, le amicizie, i legami sentimentali, il rapporto con la sorella, assistiamo alla formazione di un piccolo uomo dalla fanciullezza al momento in cui, libero, si prepara ad affrontare il mondo.
Cercando sempre di cogliere l'attimo.






Non ricordo quale fu il primo film che vidi per intero, o quando.
E neppure saprei calcolare quante pellicole sono passate, in oltre trent'anni, davanti ai miei occhi.
Eppure, nonostante il mio amore incondizionato per la settima arte, ho sempre pensato che il film più intenso, travolgente, bello del quale sarei stato testimone sarebbe stato, di fatto, quello della mia vita.
In fondo, a pensarci bene, nulla più della vita riesce a regalarci emozioni, momenti che fotografiamo in prima persona come istantanee, canzoni che diventano una colonna sonora imprescindibile, ricordi, cicatrici, drammi e grande divertimento.
Richard Linklater, che con la sua trilogia del Before - chiusa alla grande con Before midnight lo scorso anno - ha tentato di trasporre questa stessa sensazione sul grande schermo, torna alla ribalta con quello che è stato senza dubbio il suo progetto più ambizioso, e che, visione alle spalle, si è rivelato anche il suo film migliore, ed uno dei più riusciti di questo duemilaquattordici.
Boyhood, prima di essere un incredibile traduzione della costanza, della pazienza e della passione di un gruppo di lavoro affiatato e straordinario espresso da una collaborazione durata dodici anni - e ci sono amicizie e rapporti di coppia che non ci si avvicinano neanche, a questi numeri -, è il racconto di una vita, senza troppi fronzoli o giri di parole, montato straordinariamente e concentrato sul massimo sistema per eccellenza: la quotidianità della nostra esistenza.
La crescita di Mason, dalle riflessioni di bambino sull'origine delle vespe alla speranza che i suoi genitori possano tornare insieme fino al confronto con i traslochi e le nuove scuole, i due matrimoni vissuti - e falliti - della madre, il liceo, le prime cotte, il rapporto a distanza con il padre, la presa di coscienza di una nuova direzione da prendere con la fine delle superiori e l'inizio del college, quel "cogliere l'attimo" che chiude la pellicola con la stessa leggerezza e semplicità che Linklater è riuscito a tenere dal primo all'ultimo minuto della lavorazione e della presentazione di questo film strepitoso arriva al cuore con una sincerità così disarmante da lasciare quasi commossi.
Si potrebbe addirittura affermare che, in qualche modo, l'uomo dietro la macchina da presa sia riuscito nel miracolo di cogliere l'attimo per alcuni giorni di ripresa dilatati in dodici anni, e per tutta la durata di quasi tre ore del risultato finale: il Capitano Keating sarebbe fiero, del buon Richard e del suo Mason.
Ma non c'è solo questo ragazzo alla scoperta di se stesso, della famiglia e del mondo, in Boyhood: c'è una coppia cresciuta troppo in fretta che tenta, prendendo strade diverse, di ricostruirsi singolarmente un pezzo alla volta - in questo senso, il confronto tra Mason ormai maggiorenne e suo padre nel locale in attesa del concerto è quasi poesia -, a volte attraversando momenti molto difficili - il primo matrimonio fallito, con l'abbandono di una vita che, forse, appariva come un sogno all'inizio della storia -, a volte prendendo coscienza dell'immenso lavoro che solo una madre può e potrà mai fare con i propri figli. Ma non è finita: c'è una bambina ansiosa di essere la prima della classe e la principessa che arriva ad essere una donna capace di gestire il silenzio - soprattutto il proprio - ed il carattere, una nuova famiglia accolta in seno alla "vecchia" come ne fosse parte da sempre, e nonostante le differenze - ed anche in questo caso, ironico e profondo il confronto tra Mason ed il padre prima del battesimo del nuovo arrivato in famiglia, figlio di un'altra donna legata a valori decisamente più repubblicani ed americani di quelli con i quali lui e sua sorella sono cresciuti -.
Ed è solo una parte del complesso mosaico di situazioni, grandi temi e semplicità - il piano sequenza che segue Mason e la sua compagna di scuola in bicicletta - emerso da questa visione, la più intensa e pane e salame - nel senso vivo del termine - che sia capitata davanti ai miei occhi dai tempi di Cous cous o Heimat, per citare due grandiosi esempi europei di Cinema del Tempo.
E quando il Cinema stesso, senza rifugiarsi in effetti o chissà quali illusioni ed illusionismi, si mette a nudo raccontando la Vita, ed il suo scorrere, diventa con forza impareggiabile il mezzo di comunicazione più potente che esista, lo stesso esaltato dal Lupo di Scorsese, dalla magia del commiato di Miyazaki, dalla poesia di Her, dal dramma profondo di Alabama Monroe
I quattro film migliori di quest'anno.
Cui va ad aggiungersi Boyhood, che è la storia di un ragazzo e della sua crescita.
La storia di tutti noi.
Che iniziamo bambini, guardando il cielo chiedendoci da dove veniamo, e da dove vengano le cose attorno a noi, e finiamo adulti, lottando affinchè tutti i nostri difetti non formino più dei pregi le fondamenta delle vite dei nostri figli. 
Da quando sono bambini e guardano il cielo chiedendosi da dove vengono, e dove vadano le cose attorno a loro, a quando diventano adulti, e scoprono quanto breve era la distanza che ci separava.
Miracoli del Tempo.
E del Cinema.


MrFord



"Look at the stars,
look how they shine for you, 

and everything you do, 
yeah, they were all yellow."
Coldplay - "Yellow" -




Guardiani della Galassia

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Regia: James Gunn
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 121'




La trama (con parole mie): Peter Quill, rapito da un'astronave aliena ancora bambino e cresciuto nello spazio profondo, è un avventuriero con un rapporto non propriamente risolto con la Legge autoribattezzatosi Starlord. Quando mette le mani su un antico manufatto con l'intenzione di venderlo e diventare spaventosamente ricco, viene a contatto con Gamora, letale emissaria dell'impero Kree e di Ronan l'accusatore, che ha promesso in cambio della distruzione di un pianeta avversario a Thanos di recuperare per lui l'oggetto.
Finito in carcere proprio con Gamora ed una coppia curiosa di cacciatori di taglie sulle sue tracce - Rocket e Groot -, Peter finirà per improvvisarsi eroe quando il male assortito gruppo - al quale in carcere si unisce Drax il distruttore, assetato di vendetta rispetto a Ronan - dovrà mettere una pezza affinchè Thanos non entri in possesso di qualcosa di molto più potente di quanto ci si potesse aspettare.







Negli ultimi anni - forse, ultimamente, finendo per abusare della visibilità guadagnata - il genere supereroistico ha, di fatto, invaso le sale conquistando uno spazio decisamente ampio nella fetta di mercato dei blockbuster, a partire dalla meravigliosa - con i suoi alti ed i suoi bassi - trilogia di Nolan con protagonista Batman fino a Watchmen per quanto riguarda il meglio della produzione DC Comics, e gli Spider Man di Raimi - cui sono seguiti due non eccezionali reboot - e l'universo degli eroi classici in casa Marvel.
Rispetto ai loro diretti concorrenti, però, gli adepti di Stan Lee - che continua ad essere in una forma invidiabile a più novant'anni, sempre pronto ad una fugace apparizione nelle pellicole con protagoniste molte delle creature nate dalla sua penna - hanno sviluppato l'idea di una sorta di universo anche cinematografico che permettesse di creare un mosaico di singole pellicole parte di un'epopea unica complessiva con al centro gli Avengers, protagonisti di un film spettacolare un paio d'anni or sono, di uno in arrivo il prossimo e di un terzo che dovrebbe portare a compimento l'intero progetto.
E in mezzo ai Captain America, agli Iron man e ai Thor, ha finito per trovare spazio anche un gruppo praticamente sconosciuto ai non appassionati di nuvole parlanti, tra i più curiosi ed interessanti del panorama cosmico made in Marvel: i Guardiani della Galassia.
Affidati a James Gunn - che già mi sorprese in positivo con l'ottimo Super - i cinque male assortiti antieroi finiscono per riesumare il gusto per il kitsch della seconda metà degli anni settanta - non a torto questo film ha richiamato alla mente di molti elementi della prima trilogia di Star Wars - e l'approccio tamarro e fracassone degli eighties, regalando al pubblico una pellicola forse meno intensa ed esaltante di quella dedicata agli Avengers stessi ma che, di fatto, non solo propone volti nuovi in questo affollato panorama, ma anche un piglio decisamente più sbarazzino già pronto a sputarci addosso un sequel che già attendo ansiosamente e, soprattutto, uno spin-off che noi residuati degli anni ottanta non vediamo davvero l'ora di vedere sullo schermo - la scena di chiusura oltre i titoli di coda mi ha letteralmente fatto saltare sulla sedia per l'hype -.
Il risultato di tutti questi elementi è un giocattolone roboante e vintage dagli effetti ottimi, trainato da un quintetto di protagonisti spassosi e resi molto bene - perfino da Bautista/Batista, ex wrestler che a stento riesce ad articolare, figuriamoci a recitare - capitanati da un Rocket splendido - doppiato nella versione originale da Bradley Cooper - e da un Firelord pronto a lanciare nell'Olimpo dei cool Chris Pratt, ottima argomentazione per convincere le proprie fidanzate o mogli a presenziare alla visione. Niente male davvero anche Zoe Saldana nuovamente in versione aliena e le rappresentazioni cinematografiche di Ronan l'Accusatore e Thanos - che dovrebbe fare ritorno in pompa magna con il terzo film dedicato ai Vendicatori, per l'appunto -, gli effetti speciali ed una colonna sonora spettacolare, pronta a pescare a piene mani dall'immaginario musicale corrispondente all'infanzia di Peter/Firelord, un appartenente fiero alla generazione del sottoscritto.
Per il resto non c'è nulla di particolarmente innovativo, dalla struttura che vede un gruppo che definire poco coeso di antieroi risulta quantomeno eufemistico dapprima battersi come avversari e dunque da alleati ed amici quasi fraterni pronti a contrastare un male comune prendendo coscienza delle proprie responsabilità ad un finale aperto e decisamente pompato - in termini di esaltazione e scelte fracassone, ma anche di un certo spirito goliardico, si vedano le citazioni di Footloose -, eppure la confezione è ben curata, il risultato eccellente ed alcune sequenze irresistibili - la prima apparizione di Firelord alla ricerca dell'Orb a ritmo di musica, l'evasione dal carcere -: tutti gli ingredienti giusti, insomma, per un film d'intrattenimento come si conviene, in grado di regalare colori, esplosioni, personaggi interessanti e due ore di divertimento senza ritegno a chiunque sia disposto a saltare su quest'astronave decisamente sopra le righe e lasciarsi trascinare a suon di botte nel cuore di un Universo così grande e variegato da far apparire "troppo terrestri" perfino tutte le meraviglie Avengers-style.



MrFord



"I can't stop this feeling
Deep inside of me
Girl, you just don't realize
What you do to me."
Blue Swede - "Hooked on a feeling" -



 

Annabelle

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 Regia: John R. Leonetti
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 99'




 
La trama (con parole mie): Mia e John, freschi sposini ed in attesa di una bambina nella California di fine anni sessanta stanno iniziando a costruire il proprio futuro. 
Quando la figlia scomparsa dei loro vicini fa ritorno rivelandosi adepta di una setta satanica uccidendo i genitori ed assalendo anche la giovane coppia, tutto cambia. 
L’anima dell’assassina, infatti, toltasi la vita prima dell’intervento dei poliziotti, trasmigra in una bambola regalata a Mia da John, infestando di fatto non solo la loro casa, ma anche le loro esistenze.
Trasferitisi a Pasadena e passato un periodo tranquillo dopo il parto, i coniugi tornano ad essere spaventati da fenomeni inspiegabili legati soprattutto a madre e figlia, che paiono essere diventate oggetto delle attenzioni non solo dello spirito di Annabelle, ma del demone che la guida, pronto a richiedere un’anima come tributo al suo passaggio.
Aiutati dall'anziana proprietaria di una libreria locale, i due genitori novelli dovranno sostenersi l’un l’altra per cercare non solo di salvare loro stessi, ma anche e soprattutto la figlia.







Negli ultimi anni pare essere diventata una rarità sempre maggiore trovare, appassionati o no, un horror in grado non solo di spaventare davvero, ma anche in grado di funzionare a livello cinematografico, di logica e capace di catturare come si deve l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo minuto: uno degli esempi migliori fu The conjuring, che la scorsa stagione raccolse consensi un po’ ovunque nella blogosfera e non grazie ad atmosfere tese ed un plot ben congeniato, guadagnandosi lo status di esperimento riuscito – pur non perfetto, sia chiaro – e generando una sorta di spin off, questo Annabelle, che in qualche modo ne avrebbe dovuto raccogliere il testimone.
Peccato che, a seguito del cambio del regista e di una serie di scelte che sono parse più commerciali che altro, il risultato porti senza dubbio ad uno dei titoli più scontati, meno interessanti ed inequivocabilmente meno spaventosi - a meno che non si parli di qualità – dell’anno, una pellicola prevedibile che pesca a piene mani da un bacino ormai piuttosto ampio – su tutti, Rosemary’s baby – senza riuscire per questo a risultare quantomeno interessante o a proporre soluzioni alternative ad un pubblico che, con ogni probabilità, finirà per irritarsi quanto più navigato sia rispetto al genere.
In particolare, credo sia stata la prima volta – almeno che ricordi – in cui ho finito per assopirmi nel corso di un film d’orrore, vinto dalla stanchezza più che dalla tensione generata dalla pellicola, annoiato dal consueto ruolo del prete o della presunta esperta di turno destinata all’inevitabile sacrificio finale – e perdonatemi lo spoiler -, dalla caratterizzazione del charachter di una bambola che non ha minimamente lo spessore di mostri sacri come Chucky o la capacità di inquietare se non – e, in questo, è clamorosamente simile alla pellicola – rispetto alla sua bruttezza.
Poco interessanti e banali anche gli stessi protagonisti, così come la scelta di concentrare le attenzioni del demone di turno sulla bambina: onestamente, per una volta mi piacerebbe assistere ad una pellicola legata alle possessioni in cui il bersaglio possa essere un vecchio alla Clint, piuttosto che l’ormai inflazionato innocente. 
Ed effettivamente, fossi un esponente della squadra del Diavolo, cercherei di farmi largo in qualcuno già corrotto in modo da poterlo portare oltre ogni limite, piuttosto che sbattermi come un disperato per corrompere qualcuno che di corruzione non saprebbe neppure definire il significato.
Ad ogni modo, messe da parte le mie potenziali scelte da potenziale emissario luciferino, resta una visione più che evitabile e l’ennesimo fallimento dell’horror in toto, che fatta eccezione per qualche spunto di tanto in tanto, pare essere giunto pericolosamente vicino all’abisso, che si parli di resa qualitativa o di ispirazione: Annabelle è l’ennesimo film inutile sfruttato solo per le sue apparenti potenzialità commerciali – che, in fondo, non mi pare si siano tradotte in un successo da blockbuster globale – buono giusto per far saltare sulla sedia qualche ragazzino alla sua prima esperienza con questo tipo di pellicola, e poco altro.
Il terrore vero è ben altro, così come il Cinema.
Qui ci sono solo pupazzi. In tutti i sensi.
E non dico spaventosi, ma neppure divertenti.
E non è certo una buona cosa.
 


MrFord



"I wish I never had taken this dare
I wasn't quite prepared
doll me up in my bad luck
I'll meet you there." 
Foo Fighters - "Doll" - 



 
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