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Channel: WhiteRussian: cinema (e non solo) all'ultimo sorso
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Due giorni, una notte

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Regia: Jean Pierre e Luc Dardenne
Origine: Francia, Belgio
Anno:
2014
Durata: 95'





La trama (con parole mie): Sandra, giovane madre di due figli reduce da un periodo di malattia molto lungo legato a problemi di equilibrio psicofisico, scopre che nell'azienda in cui lavora è stata proposta una votazione ai suoi colleghi diretti che prevede l'assegnazione di un bonus di fatto in cambio al benestare degli stessi per il licenziamento della donna.
Convinto il proprietario dell'impresa a ripetere la votazione senza che il responsabile di reparto possa influenzare e pilotare la stessa attraverso pressioni ed intimidazioni, Sandra si ritrova ad avere un weekend di tempo non soltanto per superare la depressione sempre più difficile da affrontare, ma anche mettersi alla ricerca delle persone che hanno lavorato fianco a fianco con lei in modo da convincere le stesse a ribaltare il risultato del primo responso, di fatto conquistando una nuova possibilità di mettersi in gioco e guadagnare una stabilità economica così come un'affermazione personale.
Peccato che, dall'altra parte, soldi e timori possano essere un deterrente decisamente importante rispetto alla decisione di sostenere Sandra.








Sono passati ormai più di quindici anni dal mio primo, vero impiego.
Doveva essere una sorta di riempitivo tra una lezione e l'altra all'Università, e invece significò la fine del mio rapporto con le istituzioni scolastiche, e l'inizio di quello con gli anni di sfruttamento incondizionato e totale di tutto quello che veniva depositato sul conto, goduto tra film, viaggi, uscite e qualunque cosa mi smuovesse allora.
Per quanto sia rimasto più o meno nello stesso settore, le esperienze accumulate non hanno ancora - e probabilmente, non lo faranno mai - finito di stupirmi, dai momenti più piacevoli a quelli più bui: ricordo bene, ad esempio, il trauma che fu il periodo appena precedente alla chiusura del Virgin Megastore, qui nel cuore di Milano, un negozio che aveva iniziato a far germogliare i semi del mio lato wild - anche se ancora non lo sapevo - svuotato non solo della merce, ma del suo carattere.
Amici e colleghi separati di colpo dalla paura di rimanere senza un lavoro, gli uni a coprire con gli straordinari gli scioperi degli altri, in una lotta fratricida e tra poveri che non portò nulla di buono a nessuno.
Il mondo del lavoro, del resto, riesce come pochi altri a tirare fuori il meglio - ed il peggio - del nostro essere umani.
I Dardenne, idoli dei grandi Festival e campioni di un Cinema neorealista legato a doppio filo a tematiche di questo tipo, tornano alla ribalta con una pellicola pronta ad appoggiarsi sulle spalle di una paladina per una volta mainstream, Marion Cotillard, tornando, di fatto, alle atmosfere che avevano caratterizzato i loro primi ed incredibili lavori - La promesse su tutti -: personalmente temevo molto il confronto con questa loro ultima fatica, accolta discretamente bene quasi ovunque, memore del fatto che non sempre il mio rapporto con un Cinema a tutti i costi legato alle cronache di vite di tutti i giorni ai margini della società è stato idilliaco in passato.
Invece, pur non realizzando certo la loro opera migliore, i Dardenne sono riusciti senza dubbio ad uscire rafforzati, ai miei occhi, da questa visione: sfruttando un paragone che, a prima vista, potrebbe risultare quantomeno fantascientifico, mi sento di affermare che i due fratelli belga dediti al neorealismo abbiano gettato il cuore oltre l'ostacolo almeno quanto Nolan con il suo Interstellar.
Due giorni, una notte, infatti, nonostante racconti una storia triste e senza dubbio impossibile da poter pensare al di fuori di un concetto di margine del mondo, di losers e speranze costruite con il sudore della fronte ogni giorno che arriva in terra, rappresenta una sorta di dichiarazione d'intenti ad uno pseudo ottimismo per il futuro dei Dardenne, neanche fossero capi di stato pronti ad assicurare una ripresa economica improbabile ai propri concittadini.
Un film passionale, dunque, ed imperfetto ma cui è impossibile non voler bene, costruito attorno ad una protagonista fragile ma determinata come solo chi è abituato a lottare può essere a mantenere quello che, al giorno d'oggi, è diventato un vero e proprio lusso: un posto di lavoro fisso.
Il confronto con i colleghi alla vigilia della seconda votazione - curioso notare, osservavamo io e Julez nel corso della visione, come tutti gli interpellati come prima domanda rivolgano a Sandra il quesito: "In quanti hanno accettato di sostenerti rinunciando al bonus?", come se l'opinione altrui fosse più importante di una decisione a suo modo fondamentale rispetto al bilancio di una famiglia comune - è senza dubbio uno spaccato non soltanto della società attuale, quanto dell'essere umano decisamente ben riuscito ed importante, nonostante, di fatto, la struttura della pellicola porti ad uno svolgimento fin troppo schematico.
Un lavoro, dunque, forse non perfettamente riuscito, eppure fondamentale per la carriera dei Dardenne ed il loro modo di guardare al Cinema, almeno quanto la camminata di Sandra che chiude la pellicola: e cosa ancora più importante, un lavoro in grado di liberare i sentimenti e le passioni dell'audience, perchè pronto a parlare di dinamiche che potremmo aver vissuto sulla pelle, direttamente oppure no.
Personalmente, e senza sapere cosa se ne possa pensare all'esterno, sto dalla parte di Sandra e della sua battaglia contro i mulini a vento.
Il mio voto va a lei. E ai Dardenne.
Al loro ritrovato cuore e ad un rivoluzionario ottimismo.




MrFord




"They hurt you at home and they hit you at school
they hate you if you're clever and they despise a fool
'til you're so fucking crazy you can't follow their rules
a working class hero is something to be
a working class hero is something to be."
John Lennon - "Working class hero" - 






The protector - La legge del Muay Thai

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Regia: Prachya Pinkaew
Origine: Tailandia, USA, Hong Kong
Anno: 2005
Durata:
108' (77')





La trama (con parole mie):  il giovane Kham, addestrato fin da bambino nell'arte del Muay Thai e destinato alla protezione e all'allevamento degli elefanti di rappresentanza, cresce accanto al padre e maestro e ad una famiglia di questi enormi mammiferi. Quando, una volta divenuto uomo, assiste all'omicidio del genitore e al rapimento dei due esemplari maschi dei suoi elefanti, si mette alla ricerca dei responsabili, legati alle organizzazioni criminali tailandesi stanziate a Sidney, in Australia.
Giunto nel continente down under, Kham dovrà fronteggiare da solo l'intero clan criminale, finendo per essere aiutato da un poliziotto che con lui condivide le origini e da una giovane prigioniera delle dinamiche orchestrate dai boss locali: la strada che lo condurrà alla scoperta del destino dei suoi elefanti e al compimento della sua missione, però, sarà lastricata di lotte senza quartiere e senza esclusione di colpi.








Nonostante il sottoscritto sia un tamarro fatto e finito, e fin dall'infanzia sia legato a doppio filo non solo ai film action, ma a quelli di botte - tolto il periodo radical chic che mi allontanò dal genere per almeno cinque o sei anni -, dopo la tragedia che fu la visione del terribile Ong Bak decisi di limitare le mie incursione nel mondo delle pellicole dedicate alle mazzate ai titoli garantiti - come i due magnifici The raid, per esempio -: il mio fratellino Dembo, però, forse per farsi perdonare proprio il fatto di aver suggerito il succitato Ong Bak, ha lottato da par suo affinchè anche al Saloon giungessero i due Protector, che, di fatto, hanno contribuito notevolmente al successo del loro protagonista, lo strepitoso Tony Jaa.
E devo ammettere, visione del primo capitolo alle spalle, di essermi profondamente ricreduto: il lavoro di Prachya Pinkaew, per quanto risibile rispetto alla sceneggiatura e mutilato in maniera scandalosa dalla distribuzione occidentale - mezzora netta di differenza rispetto al minutaggio originale, una cosa vergognosa -, è uno dei più divertenti, ben coreografati e distruttivi film da scazzottata dura che ricordi di aver visto negli ultimi anni, impreziosito dalle evoluzioni spettacolari del suo protagonista, che pare aver fatto tesoro della lezione del grande padre di questo genere - un certo Bruce Lee, mica l'ultimo dei fessi - unendola alla potenza d'esecuzione che il Muay Thai garantisce.
Senza dubbio l'evoluzione della trama e la sua credibilità non vanno prese in considerazione, eppure tutte le sequenze di combattimento - dallo scontro con le gang di strada allo strepitoso piano sequenza all'interno del locale gestito dalla famiglia contro la quale Kham si scaglia alla ricerca dei suoi elefanti - regalano emozioni uniche agli appassionati, che riconosceranno in alcuni degli scontri volti noti - dal combattente esperto di capoeira Lateef Crowder, già visto in Mortal Kombat e in Undisputed 3, a Nathan Jones, colossale lottatore australiano che una decina d'anni or sono ebbe anche un breve stint nel wrestling che conta della WWE - e si divertiranno come matti osservando le doti atletiche incredibili del main charachter così come l'incredibile perizia degli stuntmen.
Prodotti come The protector, dunque, non solo regalano adrenalina e gioia al loro pubblico, ma hanno il grande merito di mostrare anche a chi continuerà a non volerlo vedere o ammettere la meraviglia data dalla grande professionalità e dalle imprese fisiche dei loro interpreti, che potranno non essere attori consumati, ma che finiscono per regalare emozioni altrettanto forti grazie a numeri ed esecuzioni di mosse talmente incredibili da far pensare a dei fumetti o dei cartoni animati dell'epoca d'oro degli anni settanta e ottanta, più che allo sfoggio della tenuta e dell'abilità di combattenti in carne ed ossa.
Come spesso capita di analizzare sempre con il già citato Dembo, perfino all'interno dei grandi Festival - o quantomeno in occasione della notte degli Oscar - andrebbe riconosciuto un premio anche al lavoro estremamente fisico di interpreti di questo calibro, così come degli stuntmen che si occupano di essere sbatacchiati in ogni dove dal protagonista di turno, che spesso e volentieri dovrà essere ancora più abile del solito per rendere credibili le sue mosse senza danneggiare il suo "avversario": una sorta di statuetta da assegnare anche, dunque, agli specialisti delle botte da orbi e delle mazzate che, con buona pace di tutti gli snob di turno, rappresentano una fetta da non dimenticare della settima arte.
Per quanto bassa, rozza e sporca possa essere.
Almeno ad un occhio che non considera alcuni movimenti e passaggi di questo genere di film una vera e propria poesia per gli occhi.




MrFord




"You can keep me pinned
it's easier to tease
but you can't paint an elephant
quite as good as she."
Damien Rice - "Elephant" - 




The protector 2

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Regia: Prachya Pinkaew
Origine: Tailandia
Anno: 2013
Durata:
104'




La trama (con parole mie): Kham, eroe della liberazione, cinque anni prima, di uno degli elefanti destinati ai sovrani come nell'antica tradizione ormai dedito ad una tranquilla vita in campagna, si trova coinvolto in un complicato affare che lega interessi di guerra internazionali, il nuovo rapimento del suo elefante e la vendetta delle figlie di un boss locale ucciso e per l'omicidio del quale è ritenuto responsabile. 
Giunto in città sulle tracce del suo animale, Kham dovrà convincere le ragazze in cerca dell'assassino del padre che non è lui il bersaglio giusto, impedire un colpo di stato pronto a provocare un conflitto e sgominare l'organizzazione di LC, boss incaricato dai militari di sistemare le cose in modo che i progetti stabiliti nell'ottica della corsa agli armamenti facciano il loro corso.
Riuscirà l'uomo, con l'aiuto del vecchio amico Mark, a farcela ancora una volta?






Avete presente quei film dai quali non vi aspettereste nulla, se non una clamorosa sequela di schifezze messe in fila, e che, al contrario, finiscono per sorprendere in positivo?
Un buon esempio tra le mie visioni più o meno recenti è stato il primo The Protector, che da anni giaceva nel dimenticatoio ed ha finito, principalmente grazie alle evoluzioni del protagonista Tony Jaa - uno dei grandi poeti attuali del Cinema di botte, come già sottolineavo ieri -, per esaltarmi neanche fossi tornato ad avere dodici anni e sognare di essere un supereroe o un action hero: spinto dall'entusiasmo, ho dunque recuperato a traino il sequel, giunto quest'anno in sala e, considerata la sorpresa del primo film, preceduto da una discreta aspettativa.
Purtroppo per me, per Tony Jaa - sempre e comunque notevole - e per il divertimento e la goduria che i film di botte dovrebbero sempre garantire, le cose non sono andate affatto come avrei voluto: perchè nonostante un minutaggio finalmente rispettoso delle scelte originali del regista, una confezione forse più curata, una trama assurda e roboante, un RZA ospite d'eccezione più tamarro che mai - e non posso non volergli bene, considerati i suoi trascorsi musicali, l'esperienza da regista con L'uomo dai pugni di ferro e la partecipazione a Californication -, The protector 2 rappresenta il classico sequel al quale si poteva facilmente rinunciare, pronto a far rimpiangere tempi migliori a chi aveva amato la pellicola originale nonchè a far pensare ai radical chic che odiano questo tipo di operazioni proprio quello che pensano con ragione.
Ma non è finita qui, perchè ho anche un aneddoto, rispetto a quest'ultima fatica firmata Prachya Pinkaew: più o meno un paio di mesi fa - giorno più, giorno meno - alla notizia della sua uscita in sala, decisi di cogliere l'occasione per schiaffarmi la coppia di Protector in modo da presentarli in due post gemelli su due giorni di seguito, nel pieno rispetto del regime di programmazione di recensioni che mi permette di avere più o meno trenta giorni di respiro e di vantaggio per qualsiasi evenienza.
Con i due post impaginati, le trame preparate, i voti assegnati e la cornice pronta, ultimai il primo e proseguii nel mio percorso abituale qui al Saloon: almeno fino a ieri pomeriggio.
Riaperto il post per dare la classica occhiata di rifinitura del giorno precedente la pubblicazione, ho scoperto di non avere mai scritto nulla a proposito di The protector 2.
Considerati il Fordino, la vita in famiglia, il lavoro, la mole di film, serie, letture e chi più ne ha, più ne metta che cerco di buttare nel serbatoio della vita giorno dopo giorno, e che, fondamentalmente, si era trattato di una visione dimenticabile e particolarmente assonnata di un titolo decisamente non clamoroso, la scoperta era l'equivalente di una rinuncia alla pubblicazione.
Ma neppure di un film di botte incapace perfino di conquistare un fan di vecchia data dei film di botte come il sottoscritto è sempre completamente da buttare - quell'onore lo riservo davvero a poca immondizia ben peggiore di queste innocue e malriuscite tamarrate -: se non altro ho avuto l'occasione di rivelare qualche retroscena della vita del Saloon e del "processo creativo" dietro la creazione dei post - o la mancata creazione, come in questo caso - portando anche a casa il risultato.
Certo, Tony Jaa non sarà contento, e probabilmente potrebbe aver voglia di rendere pan per focaccia con un paio di ginocchiate delle sue - equivalente delle bottigliate all'interno di questo tipo di prodotti -, ma penso che incasserò il colpo e aspetterò di vedere il nostro alle prese con i due banchi di prova fondamentali di Fast 7 e The raid 3.
Sperando che non si rivelino sequel privi di carattere ed incapaci di lasciare il segno - anche in una memoria labile come quella del sottoscritto - come questo.



MrFord



"Now I am calling
hoping you'll hear me
we all need somebody
to believe in something
and I won't fear this
when I am falling
we all need somebody
that can mend... These broken bones."
Rev Theory - "Broken bones" - 



Thursday's child

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La trama (con parole mie): settimana ben poco promettente, quella che si prospetta in sala a partire da oggi. Gli strascichi delle "imprese" di Katniss Kid e dei suoi amichetti teen, probabilmente, hanno influenzato i distributori che hanno preferito puntare su robetta a basso cabotaggio che, se dovesse andarci bene, potrebbe giusto riservare qualche misurata sorpresa.
Alla peggio, ci toccherà sorbirci sette giorni di roba pessima o al massimo consigliata dal mio rivale Cannibal.
Il che significa, quasi sempre, la stessa cosa.


"Ammazza, Ford e Cannibal hanno stroncato sul nascere la mia carriera di attore."


Ogni maledetto Natale


Cannibal dice: Ogni maledetto Natale chiedo a Babbo Natale di far sparire Ford dalla faccia della Terra come mio personale regalo, ma quel vecchio barbuto rimbambito non mi accontenta mai. Quest'anno sarà la volta buona? E sarà anche la volta buona che faccia scomparire pure queste commedie italiane?
In Ogni maledetto Natale fa il suo esordio cinematografico Alessandro Cattelan, conduttore che mi sta abbastanza simpatico, soprattutto in radio, però come attore non me lo vedo proprio. Si rivelerà il nuovo Fabio Volo? E questo film si rivelerà il nuovo cinepanettone?
In entrambi i casi, le risposte potrebbero essere più inquietanti di una recensione fordiana.
Ford dice: ogni maledetto natale spero sempre di poter rovinare la festa al Cannibale presentandomi a Casale con un bel sacco di carbone da sparargli dritto nella schiena, ma alla fine preferisco sempre passare le feste in famiglia.
Quest'anno, però, potrei sempre fare una capatina da lui per capodanno.
Quanto a questo film, penso non mi vedrà neppure per pasqua.


"Mi piace come festeggiano il Natale al Saloon!"

I pinguini di Madagascar
 


Cannibal dice: I pinguini di Madagascar presi a piccole dosi, cioè di massimo 30 secondi, sono anche simpatici. Come Mr. Ford...
Ah no, scusate. Lui manco per 30 secondi.
Comunque, un intero film a loro interamente dedicato mi sembra troppo. Perlomeno per la mia sopportazione. Lascio quindi perdere questa bambinata e passo a vedere un film per adulti. Anche se detto così potrebbe suonare ambiguo...
Ford dice: la saga di Madagascar e dei suoi pinguini era partita bene, finendo per banalizzarsi e diventare il solito prodotto macinasoldi pronto a fare presa sui piccoli. Considerato che il Fordino in questo periodo è preda del fascino di Alex il leone e soci e stiamo vedendo il primo venti volte al giorno, penso mi risparmierò i pinguini, almeno per il momento.

"Vi avevo detto di non far scegliere la barca a Ford: quello non sa neanche cosa sia un motore!"
I Vichinghi



Cannibal dice: Mai piaciuti particolarmente, i vichinghi, soprattutto dopo quella lagna assoluta di Valhalla Rising. Negli ultimi tempi però, grazie alla valida serie Vikings, mi sono avvicinato un po' a loro. Adesso sono di nuovo pronto a riprendere le distanze, sia da questi nuovi Vichinghi che promettono malissimissimo, sia dal vichingo onorario Ford.
Ford dice: i Vichinghi mi sono sempre piaciuti, gente cazzuta e spiccia come si conviene, al contrario di quel pusillanime di Peppa Kid. Peccato, però, che il trailer di questo film faccia assolutamente ribrezzo.
Meglio tornare alla serie e far finta che non sia mai esistito.

Ford festeggia la vittoria contro l'esercito Cannibale.
Cub - Piccole prede



Cannibal dice: Curiosa pellicola fanciullesca belga, dalle tinte avventurose ma anche horror, potrebbe essere la sorpresa di una settimana che si preannuncia altrimenti parecchio spenta. Sempre che non si riveli una bambinata fordianata da Giffoni Festival, potrebbe persino regalare qualche vero brivido.
Ford dice: il radicalchicchismo cannibalesco ha sconfinato anche nelle proposte per bambini!? Pare di sì, grazie a questa pellicola piuttosto pretenziosetta di matrice fiamminga. Considerato, però, che uno dei migliori film dell'anno è stato Alabama Monroe, potrei nonostante tutto concedere una possibilità.

"Speriamo non ci sia Ford, in giro, o me la faccio sotto un'altra volta, parola di Peppa Kid."
Trash


Cannibal dice: No, il titolo non si riferisce ai gusti di Mr. James Ford. Si riferisce alla professione dei protagonisti del film, dei bambini che lavorano in una discarica a Rio. Bella eh, Rio. La sua discarica però un po' meno. Così come questo film sembra richiamare City of God e The Millionaire, però mi sa che è un po' meno riuscito di entrambi. Dal trailer mi pare la versione ammerecana e ruffianotta del Brasile e, con una premessa del genere, rischia di finire nella spazzatura di Pensieri Cannibali, insieme al mio blogger rivale.
Ford dice: il film di Stephen Daldry, che in passato ho apprezzato per cose come Billy Elliot, pare la classica americanata buonista pronta per scatenare un ciclone di bottigliate neanche si trattasse di un Cannibal qualsiasi.
Potrei dunque recuperarlo giusto per tenermi un po' in allenamento per la gran festa di capodanno a Casale Monferrato.

"Cannibal, ti pago se la smetti di scrivere le tue stronzate."
Perfidia




Cannibal dice: Pellicola italiana che dal trailer sembra di livello piuttosto amatoriale. Non per essere perfido, ma non consiglierei la sua visione manco a Mr. Ford.
Ford dice: pellicola italiana come al solito troppo italiana. Traduzione: una vera, abominevole schifezza. Non la consiglierei neanche a Peppa Kid. Forse.

"Non c'è nessuno in giro, stasera.""Evidentemente Ford è uscito in macchina."
Mio papà
 


Cannibal dice: Altro film italiano, altro film che evito senza troppi problemi. Lasciando la visione a Mr. Ford che, per età e mentalità, potrebbe anche essere mio papà. Anzi no, che dico?
Potrebbe essere mio nonno.
Ford dice: due film italiani, due vere tragedie. Mio padre, che non si preoccupa troppo di Cinema, potrebbe facilmente decretare la quasi morte della settima arte nostrana. E avrebbe ragione.

Ford e Cannibal discutono delle uscite settimanali.
Master of the Universe


Cannibal dice: Come è noto, non sono un grande appassionato dei documentari. Eppure questo Master of the Universe, che non ha niente a che fare con He-Man, potrebbe rivelarsi un approfondimento interessante sul mondo dell'alta finanza e dei broker in stile The Wolf of Wall Street. Non credo comunque che lo vedrò mai ma, se dovessi trovarmelo di fronte in tv, non cambierei canale. Se invece mi trovassi di fronte Mr. Ford, cambierei immediatamente strada.
Ford dice: come è noto, apprezzo moltissimo i documentari, e questo, considerata anche la morìa del resto delle proposte di questo giro di giostra in sala, potrebbe perfino rappresentare la sorpresa della settimana. Dovesse capitarmi, ovviamente, non mancherò di parlarne al Saloon.

"La rassegna dedicata a Von Trier e a tutti gli idoli radical del Cannibale ha avuto proprio successo!"
Viviane


Cannibal dice: Pellicola israeliana di quelle impegnate, di quelle che tanto piacciono a Mr. Ford, o che fa finta di apprezzare per darsi un contegno intellettualoide. Soltanto a vedere il trailer, a me è salita un'angoscia pazzesca. Cosa non per forza negativa, però certo non mi ha invogliato troppo a vedermi tutto il film.

Ford dice: proposta mediorientale di quelle che piacciono al sottoscritto, e che potrebbe essere una sorta di versione alternativa di Una separazione. Speriamo soltanto che il livello possa avvicinarsi almeno un po' a quello del lavoro di Fahradi.

"Facciamo appello al senso comune per bandire dalla blogosfera quei due tizi poco raccomandabili: Cannibal e Kid."
Melbourne
 


Cannibal dice: Piuttosto che Viviane, tra i film impegnati della settimana preferisco puntare su Melbourne. Una pellicola proveniente non dall'Australia bensì dall'Iran e che non è di Asghar Farhadi, ma sembra in tutto e per tutto un film di Asghar Farhadi. Non a caso il protagonista è lo stesso di Una separazione. Sì, proprio la pellicola che parlava della separazione tra me e Ford, che d'ora in poi condurremo due rubriche sulle uscite cinematografiche differenti. La sua si chiamerà sempre Thursday's Child, mentre la mia con grande fantasia si intitolerà Thursday's Kid.
Ford dice: si scriveva di Fahradi e di Una separazione, ed ecco un film che non solo riporta sullo schermo lo stesso protagonista, ma anche atmosfere decisamente Fahradiane. Anche in questo caso, speriamo bene: anche perchè, se dovessi affidarmi solo al Cinema italiano o a Thursday's Kid, farei davvero poca strada.


"E' inutile che insistiate: io a Casale non metto piede neanche sotto tortura!"

Miss Violence

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Regia: Alexandros Avranas
Origine: Grecia
Anno:
2013
Durata:
98'




La trama (con parole mie): la giovanissima Angeliki, nel giorno del suo undicesimo compleanno, si getta da una balconata togliendosi la vita. Gli inquirenti chiamati ad investigare sul caso si trovano di fronte una famiglia soltanto apparentemente normale dominata dalla figura del nonno/padre padrone e chiusa rispetto al mondo esterno. Proprio i componenti dell'insolito focolare, composto dalla moglie del capofamiglia, la figlia ed i nipoti, paiono fare fronte comune rispetto al terribile avvenimento, convinti che si sia trattato di un incidente. Ma quando le porte si chiudono, all'interno della casa si vive un'atmosfera oppressiva e terribile.






Questo post partecipa alla "No more excuses" Week organizzata da Alessandra e contro la violenza sulle donne.





Ricordo come se fosse ieri l'esperienza indimenticabile di Dogtooth, celebratissimo film ellenico che qualche anno fa percorse come una scossa di terremoto tutta la blogosfera, sollevando pareri entusiastici e lasciando una traccia profonda in chiunque l'avesse visto: ricordo anche quanto, nonostante l'avessi bottigliato e mi avesse irritato profondamente, ebbi l'impressione di essere di fronte ad un'opera di rottura, geniale e terribile, di quelle che si amano o si odiano, ma finiscono per diventare comunque delle vere e proprie pietre miliari.
In occasione delle celebrazioni che vedono noi cinefili della rete schierati contro la violenza sulle donne, ho dunque deciso di tornare ad affrontare il Cinema di una terra che amo molto, e che in passato mi ha visto spesso come ospite, analizzando uno dei titoli considerati, di fatto, come figli dello stesso Dogtooth: Miss Violence.
Partito da un presupposto terribile - il suicidio della giovanissima Angeliki nel giorno del suo undicesimo compleanno - e legato al concetto non solo fisico ma anche e soprattutto mentale di violenza domestica, il lavoro di Avranas ha avuto sul sottoscritto un effetto simile a quello dell'opera di Lanthimos privo, però, della quasi certezza di avere di fronte un film destinato a fare una propria parte di Storia: nel corso della visione, anzi, ho continuato a nutrire il terrificante dubbio di stare assistendo allo svolgimento di un dramma quasi goduto da chi ha scelto di raccontarlo, allo stesso modo che rese ancora più agghiacciante l'ignobile immondizia che è A serbian film.
Avranas, che sceglie inquadrature parziali e gioca sul concetto delle porte chiuse - tema dominante, e molto interessante, della pellicola - lasciando spesso e volentieri intuire la violenza allo spettatore - scelta che rende il racconto ancora più teso e spaventoso - finisce almeno in un paio di momenti per farsi prendere la mano, mostrando proprio nelle occasioni che riguardano i più giovani della famiglia portata sullo schermo un'esecuzione esplicita e diretta della stessa - lo schiaffeggiamento di Philippos da parte della sorellina, il sesso di e con la figlia adolescente -.
Dunque, in casi come questo, il dubbio risale come un boccone amaro: quello che il regista sceglie di mostrare è lo specchio di qualcosa che dovrebbe fin oltre misura irritare e sconvolgere lo spettatore in modo da sensibilizzarlo, o assume le connotazioni della messa in atto di una qualche fantasia distorta dello stesso uomo dietro la macchina da presa giustamente e legalmente non praticabile nella realtà?
Il ruolo del padre padrone e l'oppressione insita nella condizione della sua famiglia, già rappresentati con un certo distacco e freddezza quasi hanekiani, necessitano davvero di sequenze in cui la violenza viene mostrata anche esplicitamente? 
Anche Dogtooth mostrò gli stessi limiti, eppure, in parte grazie allo straordinario lavoro fatto rispetto al linguaggio dei personaggi ed una certa "grazia da entomologo" di Lanthimos non mi capitò di provare il fastidioso brivido di essere di fronte ad una fantasia dell'autore, cosa che, al contrario, ho avuto modo di sperimentare, purtroppo, con Miss Violence, pronto a partire come un viaggio mentale all'interno degli abissi più oscuri delle violenze domestiche e sfociato in una sorta di esplosione forse non così clamorosamente eccessiva ma sempre e comunque inquietante proprio per il suo essere incapace di rimanere legata all'ambito della fiction, neanche fosse un documentario in stile Capturing the Friedmans.
Questo può essere considerato un pregio, per una pellicola come questa, eppure non sono riuscito, nel corso della visione, ad allontanare la sgradevole sensazione di assistere a qualcosa di viscido e scomodo, una sorta di violenza aggiunta alla violenza raccontata dalla vicenda: non parlo di sconvolgimento o scandalo, quanto, più che altro, di dubbi che hanno finito per assalirmi rispetto alle possibili sfumature morali dell'autore.
Non penso avremo mai una risposta, e senza dubbio il successo di critica avuto da questo film pare dare ragione all'uomo dietro la macchina da presa: quello che resta importante è il fronte comune che noi cinebloggers abbiamo scelto e continueremo a fare contro ogni singolo episodio di violenza, domestica e non.
Le porte chiuse, da queste parti, non sono ben accette.



MrFord


"Cattivo come adesso non lo sono stato mai
cattivo come adesso non lo sono stato mai
ti faro' male in posti che nessuno potra' mai vedere...NESSUNO!
In posti che ti faranno male per il resto della tua vita!"
Mr. Bungle - "Violenza domestica" -



Le irregolari - Buenos Aires Horror Tour

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Autore: Massimo Carlotto
Origine: Italia
Editore:
E/O
Anno: 1998

 



La trama (con parole mie): unendo realtà e finzione narrativa, lo scrittore Massimo Carlotto racconta il suo personale diario del viaggio che lo conduce alla scoperta delle sue radici argentine, legate ad un esilio in Sud America del nonno, anarchico antifascista fuggito dall'Italia per una generazione prima di fare ritorno a casa.
Incrociato il cammino con il bus dell'Horror Tour di Buenos Aires ed i racconti della dittatura legati alla tragedia dei desaparecidos, Carlotto entrerà in contatto con le Nonne di Plaza de Mayo, un'associazione impegnata sul fronte dei diritti umani che lavora alacremente per tenere viva la memoria di tutte le vittime di uno dei genocidi più sconvolgenti della Storia.
Proprio attraverso questo incontro lo scrittore avrà modo di riscoprire il suo passato "argentino" e vivere ancora una volta l'energia della gioventù di rivoluzionario.








Fin dai tempi in cui, nel pieno del turbinio adolescenziale, tendevo a sbattermene di tutto e tutti, e finivo per detestare gli amici ed i compagni di scuola presi da un posticcio fervore politico, sono sempre e comunque rimasto molto sensibile rispetto al dramma vissuto dall'America latina, che a partie dagli anni sessanta ha finito per conoscere sulla sua pelle eccidi e dittature troppo spesso e volentieri sponsorizzate da Europa e USA responsabili di alcuni tra i crimini più feroci commessi dall'Uomo dopo la Seconda Guerra Mondiale: da Haiti al Cile, dalla guerriglia nella giungla alle battaglie politiche per i diritti umani, molti uomini, donne e bambini innocenti hanno finito per pagare con la vita la sete di potere e la crudeltà di pochi tiranni ed assassini.
L'Argentina è stata, tra le nazioni sconvolte da questo tipo di violenze, senza dubbio la più colpita e segnata nel corpo e nell'anima: il dramma dei desaparecidos, narrato attraverso Letteratura, Musica e Cinema ancora non è conosciuto come dovrebbe soprattutto da questa parte dell'oceano, considerata la portata e l'entità dei crimini commessi sotto l'egida del regime che soggiogò una delle più grandi nazioni del continente tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta.
Massimo Carlotto, che sulla pelle, nel corso della vita, ha provato il dolore della prigionia ed in testa ha continuato a mantenere vivi gli ideali della "rivoluzione" che, di fatto fallita, segnò la sua generazione e quelle successive, sfrutta i ricordi e questo diario in bilico tra fatti realmente accaduti e fiction narrativa per portare il lettore nel cuore di un vero e proprio Horror Tour tra le vie di Buenos Aires, all'epoca in cui bastava aver alzato la testa per aiutare la persona sbagliata per vedere non solo la propria vita messa a repentaglio, ma i propri cari rapiti, scomparsi, seviziati, torturati, uccisi.
Desaparecidos, anzi.
Pensate a quanto potrebbe essere terribile non avere più alcuna notizia delle persone che amate: avere la consapevolezza della loro morte ma convivere con la speranza, un giorno, di poterle ritrovare.
Pensare di avere perduto mariti, mogli, figli dati in affidamento a coppie fedeli al regime e da loro cresciuti.
Pensate ad un'associazione di donne assolutamente comuni ed accomunate dal dolore di perdite enormi per chiunque: un gruppo fattosi sempre più forte, riuscito a giungere ai quattro angoli del globo affinchè i crimini potessero essere riconosciuti, i colpevoli puniti, le vittime restituite alle loro famiglie.
Un'associazione così forte da finire per essere vittima di uno scisma: da una parte, un gruppo pronto a mediare affinchè i torti possano essere riconosciuti come i resti di ogni morto, di ogni martire, e che oltre alla restituzione possa essere concordato un risarcimento, alla memoria così come a chi è sopravvissuto.
Ed un altro che a mediare non vuole pensare, per il quale i morti sono morti, e che tutto sarà finito - se finito si potrà mai definire - soltanto nel momento in cui ogni colpevole verrà punito e riconosciuto come tale.
Massimo Carlotto racconta anche questo.
Un'altra storia, un altro dramma parte del mosaico che la dittatura ha tracciato sulla pelle dell'Argentina, e nel destino di così tante famiglie che è difficile davvero immaginare.
Questo romanzo non è perfetto, ha limiti di retorica e perde contatto con la sua ossatura principale per seguire le orme del protagonista ed autore: eppure è un'altra lettura fondamentale per cercare, almeno alla lontana, di comprendere uno dei più grandi drammi della Storia dell'Uomo, magari accompagnandolo con buona musica e pellicole come Garage Olimpo, La morte e la fanciulla, The agronomist.
Un dolore necessario affinchè questo non sia mai dimenticato. E non si ripeta.
Affinchè noi, con la memoria ed ogni pensiero o parola, si possa incarnare lo spirito delle madri e delle nonne di Plaza de Mayo.
Affinchè i desaparecidos, in qualche modo, possano tornare alle loro famiglie, alle loro case, anche grazie a noi.




MrFord




"E così lo torturarono con i ferri e con i vetri
con i fili con il gas con gli strumenti più segreti
ma lui continuò a sorridere e sparì tutto d'un tratto
perché Fango non smentisce la sua anima di spettro."
Ricky Gianco - "Fango" - 





Babysitting

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Regia: Nicolas Benamou, Philippe Lacheau
Origine: Francia
Anno:
2014
Durata:
85'





La trama (con parole mie): Franck, giovane impiegato per una grande casa editrice di fumetti ed aspirante autore degli stessi, viene assoldato come baby sitter improvvisato dal suo direttore editoriale in cambio dell'opportunità di mostrare le sue tavole. Peccato che Remy, il ragazzino cui Franck dovrà badare, sia un vero e proprio stronzetto viziato in conflitto con il padre assente come pochi, e che la nottata di "lavoro" cada proprio nello stesso giorno della sua festa per i trent'anni.
Quando gli amici d'infanzia di Franck faranno irruzione nella villa del suo principale, inizieranno per tutti i guai: il giorno dopo, richiamati dalla polizia giunta a constatare i danni all'abitazione, i genitori di Remy scopriranno grazie ad una videocamera ritrovata nella loro proprietà cosa è accaduto esattamente nel corso delle ultime dodici ore.







Neppure troppe stagioni fa, a cavallo di un paio di annate straordinarie, il rinnovato Cinema francese pareva essere tornato il centro del mondo della settima arte, in grado di soddisfare in egual misura le grandi platee ed il pubblico di nicchia, conquistando premi e favori della critica ad ogni latitudine.
Ad oggi, purtroppo, le emozioni regalate da perle come Quasi amici, Holy motors, Il profeta, The artist paiono ricordi dei bei tempi che furono, sommersi da una serie di commediole di bassa lega neanche ci trovassimo nel cuore del nostro disastrato Bel Paese: Babysitting, lavoro dalla qualità quasi amatoriale di Lacheau e Benamou, rientra perfettamente nella categoria.
Girato nel pieno dello stile del mockumentary - che già sta finendo per stancare se applicato all'horror, figuriamoci alla commedia - e sulla scia del successo della trilogia de Una notte da leoni, questo filmetto cerca - senza riuscirci neanche per sbaglio - di conquistare il pubblico con le trovate fuori di testa della notte brava unite ad un sottotesto da happy ending in famiglia che parrebbe più tipico degli standard hollywoodiani della peggior specie, che non di una produzione transalpina.
Sfruttando le peripezie del protagonista impegnato nel gestire contemporaneamente la sua festa per il trentesimo compleanno e l'ingestibile figlio del capo, appioppatogli dallo stesso in cambio della promessa di concedere una possibilità alle sue tavole di fumettista, Babysitting prosegue - fortunatamente non per molto tempo grazie al minutaggio piuttosto risicato - nella tradizione dedicata ai "fuori orario"del Cinema senza valere neanche l'unghia incarnita del pollice destro della creatura di Scorsese che, di fatto, battezzò un genere: situazioni al limite dell'assurdo in termini di logica - e non parliamo di grottesco, quanto più di soluzioni che, di norma, divertirebbero giusto un quasi adolescente ansioso di farsi due risate con i ragazzi più grandi fingendo di darsi un tono che non ha -, incapacità di divertire e, cosa forse più grave, di far ridere sguaiatamente come un titolo di questo tipo si presuppone sia in grado di fare ad occhi chiusi.
Attori inguardabili, spunti volgari e mosci, una trama che non decolla mai davvero, neppure quando la ricostruzione degli eventi del day after riguarda la ricerca dell'apparentemente scomparso Remy, inizialmente al centro dei sospetti di un rapimento da parte del suo inesperto baby sitter: non mi pare resti niente da salvare di un filmetto davvero degno del panorama italiano, buono giusto come sottofondo per una giornata di gioco sfrenato con il Fordino, senza dover necessariamente sacrificare tempo, sonno, spazio e soprattutto particolare attenzione ad una schifezzuola di questo tipo.
Come se non bastassero le questioni tecniche e sguaiate del caso, a contribuire al massacro di Babysitting ci pensano charachters minori in grado di incarnare molte delle cose che, in maniera totalmente istintiva, finiscono per irritare il sottoscritto a proposito dei cugini transalpini, dal padre del piccolo ed ostico ragazzino ai poliziotti, forse tra i comprimari caratterizzati peggio non solo degli ultimi dodici mesi, ma degli ultimi dodici anni.
Non so, dunque, se essere contento del fatto che dall'Italia si sia "esportata" in Francia l'incapacità improvvisa di generare film decenti oppure spalancare gli occhi allarmato rispetto alla metamorfosi che pare aver colpito i tanto detestati cugini, che potranno avere difetti a non finire - e non sarò certo io a negarlo - ma senza dubbio si sono sempre dimostrati piuttosto capaci quando si trattava di portare la meraviglia da una parte all'altra dello schermo.
Nel caso di Babysitting, e pur vivendo sulla pelle tutte le gioie ed i dolori del rapporto con un bimbo - più piccolo di Remy oppure no, poco conta -, l'unica cosa a fare da "testimone"è una bottiglia.
Di quelle pronte a schiantarsi sulla testa degli autori di schifezze di questo calibro.  
  



MrFord




"Well I'm just outa school
like I'm real real cool
gotta dance like a fool
got the message that I gotta be
a wild one
ooh yeah I'm a wild one."
Iggy Pop - "Real wild child" - 



Un milione di modi per morire nel West

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Regia: Seth McFarlane
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
116'





La trama (con parole mie): Albert, non proprio coraggioso allevatore di pecore del vecchio West, è stato appena mollato dalla fidanzata Louise, pronta a mettersi senza neppure aspettare troppo con il barbiere Foy, uomo di maggior successo di lui. Sull'orlo della crisi sentimentale ed in procinto di partire lasciando tutto, Albert conosce la misteriosa Anna, giunta in città d'improvviso e decisa ad aiutarlo ad uscire dal guscio per riconquistare la sua vecchia fiamma. Quando il rapporto tra loro si evolverà in qualcosa di più profondo, però, farà la sua comparsa lo spietato rapinatore Clinch, uno dei pistoleri più veloci del West nonchè marito della stessa Anna. 
Riuscirà Albert a farsi valere e conquistare la sua personale Frontiera?




Come ormai anche i più pusillanimi dei radical chic sanno, il West è da sempre l'habitat quasi naturale di questo vecchio cowboy, appassionato della Frontiera fin da bambino e memore di visioni più che mitiche legate ad uno dei generi che ha resto grande il Cinema USA.
Allo stesso modoadoro le parodie ben riuscite dei "mostri sacri", che da Frankenstein Jr a Balle spaziali, dalla Trilogia del Cornetto al mitico Mezzogiorno e mezzo di fuoco sono state in grado di regalarmi, in passato, perle quasi all'altezza dei cult che andavano con il sorriso ad omaggiare.
Non mi è mai dispiaciuto neppure Seth McFarlane, autore dei divertentissimi Griffin e dei loro discendenti - American Dad su tutti - e del discreto - seppur non impeccabile - Ted: con ogni probabilità, però, così come Sansone con i capelli o Clint Eastwood con la pistola, il buon Seth non avrebbe mai dovuto lasciare il dietro le quinte per buttarsi nella mischia in prima persona, impersonando il protagonista di questa commedia decisamente wannabe che rappresenta, senza alcun dubbio, uno dei film più brutti, noiosi, inutili e volgari dell'intera stagione - e attenzione, non lo dico certo da damerino, considerato che il turpiloquio e l'essere sopra le righe sono il mio pane quotidiano -.
Se non fosse stato per il cast e la produzione tipici del larger than life a stelle e strisce e la perfetta riproduzione fin dai titoli di testa delle cornici tipiche dei vecchi western, sarei stato portato a pensare - e tutta casa Ford con me - di essere finito in una nuova incarnazione dei cinepanettoni figli dell'Italietta dei Vanzina, e devo ammettere che, tra merda, piscio e liquidi corporei di varia natura, senza contare le battute che neanche nel peggiore dei bar della periferia di Caracas - e senza rum per digerire il tutto -, ho pensato fino alla fine di veder comparire da una qualche buca nel deserto Boldi o De Sica, pronti a dare il loro contributo ad un McFarlane che pare aver completamente dimenticato il significato della parola ironia, perso tra cazzi di pecore e situazioni così trash da far rimpiangere gli Sharknado di turno.
Tutti i luoghi comuni del Western sono rivisitati, dunque, con una povertà di fantasia e di idee disarmante, quasi il film fosse indirizzato solo ai bagonghi delle periferie urbane pronti ad invadere i multisala in occasione della spesa gigante mensile al centro commerciale o ai ragazzini in piena idiozia adolescenziale ansiosi di ridere senza ritegno di fronte a qualsiasi riferimento al sesso o volgarità gratuita: non basta una Charlize Theron come sempre abbagliante - che si mangia in un boccone anche la sempre più insipida Amanda Seyfried, che un tempo non mi dispiaceva - per salvare capra e cavoli - o dovrei dire pecora - al povero McFarlane, che incappa in uno scivolone in grado di far rivalutare il suo spessore non solo come entertainer - anche perchè, in tutta onestà, il ruolo di attore in carne ed ossa non gli si addice granchè - e perfino l'intera produzione precedente, che soprattutto nel caso dei prodotti seriali da lui prodotti a questo punto potrebbe essere stata garantita nei suoi risultati dai collaboratori scelti dall'autore.
Un vero peccato, perchè da appassionato di cowboys e sparatorie mi sarei gustato più che volentieri una rivisitazione del genere - cosa che è riuscita alla grandissima a Tarantino con il suo Django, protagonista della penosa sequenza a cavallo dei titoli di coda - grazie alla quale ridere senza ritegno sfruttando un'ambientazione che, di norma, regala solo lacrime e sangue, o quasi.
Al contrario, al termine della visione, lacrime e sangue le avrei regalate volentieri a McFarlane, ma senza bisogno di pistole: sarebbe bastata ed avanzata una bella tempesta di bottigliate.




MrFord




"Cowboys and pioneers, come lend your eyes and ears.
I've got the need to testify.
don't try to fill your nest out in the open west
'cuz there's a million ways to die."
Alan Jackson - "A million ways to die" -




 

Palo Alto

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Regia: Gia Coppola
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 100'





La trama (con parole mie): la giovane April, introversa studentessa in bilico tra l'essere allieva modello e scoprire il suo lato più alternativo, è preda di sentimenti contrastanti rispetto allo scombinato coetaneo Teddy, incline a mettersi nei guai più spesso di quanto non possa lui stesso pensare ed al suo allenatore di calcio nonchè insegnante Mr. B.
Il rapporto con i due influenzerà il susseguirsi della stagione più importante della sua adolescenza, scandita dalla scuola, gli impegni al di fuori della stessa, i piccoli e grandi drammi che lei e tutti i suoi amici finiranno per provare sulla pelle in attesa di crescere e prendere una propria strada.
E Palo Alto, California, potrebbe di colpo diventare una sorta di piccolo centro dell'universo dei teenager occidentali.








Resto sempre stupito, quando un film che ha tutte le carte in regola per entrare nelle grazie del mio eterno rivale Cannibal Kid finisce in qualche modo per non deludermi, mostrando anzi spunti almeno in parte interessanti: Palo Alto, firmato dall'ultima degli esponenti della dinastia Coppola, appartiene senza dubbio alcuno alla categoria.
Firmato da una "figlia d'arte", interpretato da volti giovani e pseudo alternativi capitanati da James Franco, che riesce ad essere tanto pane e salame quanto indie-cool, ambientato nella provincia californiana bene, almeno sulla carta più simile al debole The bling ring che non a cult dell'adolescenza come The breakfast club, il qui presente titolo rischiava di fatto una tempesta di bottigliate già sulla carta.
Fortunatamente per il sottoscritto - considerata anche la stanchezza accumulata di questo periodo, che mi costringe a sforzi sovrumani per non addormentarmi sul divano nel corso delle visioni - e per la giovane donna dietro la macchina da presa, il risultato è stato, di fatto e pur non dando libero sfogo a pareri entusiastici, un discreto successo: il lavoro dell'interessante Gia, tratto da una serie di racconti firmati proprio da James Franco, è fresco quanto basta per evitare la trappola dell'indie-chic che tanto mi fa incazzare, fotografa con un piglio deciso il periodo burrascoso dell'adolescenza e mantiene alta l'attenzione dello spettatore senza eccedere nella misura, regalando perfino un finale che suona quasi perfetto.
Merito del risultato senza dubbio anche quello di un cast decisamente in parte, che rispolvera vecchie conoscenze come Val Kilmer - accompagnato per l'occasione da suo figlio, tanto per rimanere in tema di nepotismi hollywoodiani - e giovani volti come Emma Roberts, che ricordo più volentieri in Cinque giorni fuori che non nella poco interessante terza stagione di American Horror Story: a sostenerlo, uno script tutto sommato non banale che ha nei confronti tra Teddy e Fred i suoi momenti migliori, e che riesce a presentare tutte le immagini che pare essersi prefissato senza per questo imbrigliarle in uno schema definito, con un inizio ed una fine.
Palo Alto ricorda più un'istantanea, come una foto delle vacanze che si stringe tra le mani sospirando nel cuore dell'inverno o il ricordo di una cotta che non è durata, ma che ha finito per lasciare il segno: niente di davvero destinato ad essere un avvenimento fondamentale della nostra vita eppure qualcosa alal quale sarà difficile, in un modo o nell'altro, non rimanere legati.
In questo senso la capacità del film di mostrare senza pregiudizi il lato più sguaiato e cazzone dell'adolescenza - che, poi, se non si vive in prima persona, spesso è anche quello più fastidioso percepito dall'esterno - e quello più intimista è decisamente invidiabile, sia che si parli di storie d'amore - e, dunque, della protagonista April -, sia di amicizia - e torno a citare i dialoghi e le divergenze che si cominciano a creare tra Teddy e Fred -: in quegli anni tutti noi finiamo per vivere sulla pelle emozioni e situazioni che crediamo fortemente saranno le uniche e le più importanti della nostra esistenza.
Madornale errore, si direbbe se fossimo in un film action.
Perchè tutto passerà, e finiremo per vivere emozioni decisamente più forti.
Eppure quello che avremo accumulato in quegli anni definirà il bagaglio che porteremo sulle spalle una volta affacciati davvero sul mondo adulto: e dalla decisione di April rispetto al suo futuro sentimentale a quella di Teddy, pronto a scendere da una macchina forse troppo autodistruttiva perfino per lui, troviamo in Palo Alto tutta la poesia naif che difficilmente avrà spazio ancora una volta nelle nostre esistenze.
Ed è bello pensare che, in questo caso, non sia un male così grande.
Forse necessario. Senza dubbio.
Ma è confortante che vada in questo modo.
Confortante e caldo.
Come il sole di questa California dai sentimenti incerti.




MrFord




"Don't think that we were beautiful
don't think that I'm your friend
I'll be the first one to tell you a lie."

Devonte Hynes - "Palo Alto" -





Comportamenti molto cattivi

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Regia: Tim Garrick
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 97'




La trama (con parole mie): Rick Stevens è nei guai. In un intervallo di tempo clamorosamente breve, infatti, spinto dalla cotta per la coetanea Nina Pennington, il ragazzo è riuscito a passare dallo status di adolescente tendenzialmente nerd ed impacciato, nonchè vergine, in una sorta di macchina da guai in grado di finire a letto con la madre del suo migliore amico, organizzare un giro di prostituzione, affrontare boss lituani e tentare l'impresa più difficile per uno come lui: conquistare il cuore della stessa Nina.
E nel delirio generato da visioni, equivoci, sesso e droghe, Rick dovrà cercare di arrangiarsi al meglio possibile per poter vincere non solo una battaglia, ma anche e soprattutto la guerra: con se stesso, il mondo e soprattutto, per arrivare alla sua bella.









Non pensavo davvero potesse esistere un film teen talmente brutto da farmi pensare che neppure il Cannibale potrebbe considerarlo interessante - nonostante il penoso sei politico che finì per affibbiargli -.
Eppure, eccolo qui.
Con ogni probabilità, il titolo che mi costerà più fatica dilatare in un post che non si concluda semplicemente con la calzante definizione: "Questo film è una merda".
Curioso quanto premesse se non buone quantomeno indirizzate ai neuroni a zero, un cast ricco di presenze anche gradite - Elizabeth Shue, Heather Graham, Cary Elwes, Gary Busey -, alcool e sesso non siano riusciti quantomeno a salvare il salvabile da uno degli obbrobri più grandi e clamorosi della stagione, una vera e propria presa per il culo del pubblico ed uno spreco di tempo tra i più ingiustificati della mia carriera di spettatore.
Se non altro, il fatto che alla fine risulti innocuo, concorre ad evitare un'incazzatura che soltanto pochi titoli hanno finito per scatenare nel corso degli anni, e che, in altre condizioni, sarebbe stata assolutamente sacrosanta rispetto ad uno scempio che il Cinema tutto non meriterebbe affatto.
Avrei dovuto forse sapere fin dal principio che una pellicola con protagonista Dylan McDermott - di norma garanzia di schifezza - avrebbe avuto scarsa fortuna, qui al Saloon, ma neppure nei miei incubi peggiori avrei immaginato uno scempio di tal fatta: dall'elementare regia di Tim Garrick ad una sceneggiatura che fa delle scene scult i suoi cavalli di battaglia - davvero imbarazzante Elizabeth Shue, mito della mia infanzia con Karate Kid, nel ruolo della milf assatanata - senza per questo riuscire a regalare risate grasse nello stile di titoli come i due Sharknado.
Pensare che, senza colpo ferire, avevo finito per addormentarmi con grande soddisfazione sul divano più o meno a metà della pellicola e che, svegliatomi di soprassalto, ho deciso di riprendere la visione per portarla a termine finisce quasi per farmi sentire in colpa rispetto alla settima arte, che con Comportamenti troppo cattivi - terribile anche l'adattamento italiano, come al solito - non ha davvero nulla a che spartire.
Tant'è che non ripeterò l'errore spingendomi al limite per confezionare un post almeno vagamente decente e di un certo "spessore".
Questa roba non lo merita.
Vado a dormire, il più felice possibile di essermi allontanato da uno dei film peggiori dell'anno.
E non solo, probabilmente.
Sperando di non avere incubi che portino dalle mie parti Justin Bieber e Tim Garrick.




 
MrFord






"I'm having trouble seeing 
I'm punch drunk and 
I need to find a way back home 
it'd be a miracle if you'd oblige."

Incubus - "Punch drunk" -





Thursday's child

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La trama (con parole mie): nuova settimana di uscite e nuova occasione per i due blogger scemi e più scemi della blogosfera cinefila, il sottoscritto ed il suo eterno rivale Cannibal Kid, per insultarsi l'un l'altro come si è abituati a fare sin dalla nascita di questa rubrica.
In realtà, finalmente, almeno un'uscita interessante pare essere in procinto di giungere in sala, e chissà che non possa sconvolgere le ormai imminenti classifiche di fine anno: riusciranno i due antagonisti ad avere una top five per il duemilaquattordici almeno in parte differente?

"Buonissimo questo White Russian preparato da Ford!""Dici!? Per me è troppo pesante: sono un pusillanime peggio di Peppa Kid!"
Scemo & più scemo 2

"Secondo te siamo più scemi di Ford e Cannibal!?""Impossibile anche per noi, amico!"
Cannibal dice: Il primo Scemo & più scemo è una delle commedie più piacevolmente sceme e divertenti degli anni '90. Puro delirio comico di quelli che piacciono a me. L'unica cosa che non ho mai capito del film è se sia più scemo Jim Carrey o Jeff Daniels, così come mi sfugge se sia più scemo io o il finto serioso Mr. Ford. Chissà?
Riguardo al nuovo capitolo comunque non sono troppo fiducioso. A 20 anni di distanza, questo sequel rischia di arrivare davvero fuori tempo massimo e i due protagonisti adesso rischiano di suonare patetici, più che spassosi. Però, anche in questo caso, chissà?
Ford dice: il primo Scemo & più scemo mi era parso, all'epoca, decisamente scemo. E avevo quindici anni. Figuriamoci cosa può sembrarmi questo inutile sequel ora.
Quasi peggio Scemo Kid, degno compagno di Scemo Ford.


Magic in the Moonlight

"Ma come ti sei vestita, Katniss Kid!?""Parla per te, Colin Ford!"
Cannibal dice: Il mio rapporto con Woody Allen va a periodi e negli ultimi tempi siamo un po' in crisi. Dopo l'orrido To Rome with Love e il sopravvalutato Blue Jasmine, Woody prova a far dimenticare l'acidità del suo ultimo film, che ho trovato poco nelle sue corde, con una nuova commedia. Magic in the Moonlight sfoggia la mia adorata Emma Stone al fianco del da me poco adorato Colin Firth e dalle premesse non sembra essere destinato a diventare uno dei migliori lavori del regista forse più radical-chic della Storia. In compenso potrebbe essere una pellicola caruccia in stile Scoop. Da vedere sicuramente ma, almeno per quanto mi riguarda, con aspettative non troppo alte. Un po' come quando mi accingo a leggere un nuovo post pubblicato su WhiteRussian.
Ford dice: Woody Allen, ormai, con la sua consueta uscita natalizia, è praticamente diventato un cinepanettone per radical chic. Certi anni sa di rancido, certi altri è come il nettare degli dei. Le premesse, in questo caso, non mi sembrano delle migliori, ma io continuo a sperare di sbagliarmi.


Mommy

"Sono Cannibal Teen e voglio ascoltare la mia musica tutto il giorno, e nessuna delle vostre stronzate! Gnè gnè!"
Cannibal dice: Attenzione a questo film. Con la classifica dei migliori lavori dell'anno ormai in dirittura d'arrivo, uno degli ultimi titoli capaci di scompaginare le carte in tavola potrebbe essere questo, insieme a L'amore bugiardo - Gone Girl di David Fincher in uscita tra un paio di settimane.
Osannato all'ultimo Festival di Cannes, dove si è portato a casa il Premio della Giuria, il nuovo film di Xavier Dolan potrebbe essere la prova di maturità di questo giovane e promettentissimo autore canadese. Io punto tutto sul suo Mommy e niente sul Daddy Ford.
Ford dice: di questo giovane e promettente Dolan si parla un gran bene ovunque, dal Festival di Cannes alla blogosfera, e devo ammettere che questo suo lavoro mi incuriosisce molto, tanto da mettere in secondo piano altri recuperi per poterlo avere presto ospite al Saloon. Peccato solo per l'entusiasmo in merito del mio rivale, che potrebbe rivelarsi più un male che un bene per il buon Xavier. Staremo a vedere.


The Rover

"Se tutti continueranno a stroncarmi come Ford e Cannibal, finirò davvero a dormire per la strada."
Cannibal dice: Se non subisce altri rinvii nella distribuzione, dovrebbe arrivare questa settimana The Rover, porcheruola post-apocalittica con Robert Pattinson. Come testimonia la mia recensione (http://www.pensiericannibali.com/2014/09/the-rover-una-schifezza-post.html) io l'ho detestato. Sono quindi sicuro che questo noiosissimo e senza senso on the road movie australiano verrà adorato da Ford.
Ford dice: avevo rinviato la visione ai tempi dell'uscita in sala, e per una volta la distribuzione pare essermi venuta incontro. The rover approderà a breve da queste parti, e tutti - Peppa Kid in primis - avrete modo di scoprire se un prodotto australiano ed insolito come questo incontrerà effettivamente i favori del vecchio Ford, o si guadagnerà le bottigliate delle grandi occasioni.
Ovvero quelle che, di norma, toccano al Cucciolo Eroico.

Un amico molto speciale

Babbo Ford e Peppa Kid in una delle loro discussioni più accese.
Cannibal dice: Da buon Scrooge della blogosfera, non amo molto i film natalizi. Diciamo che non li amo per niente. Eppure questo film di provenienza francese con protagonista l'ottimo Tahar Rahim de Il profeta e Il passato potrebbe essere una di quelle commediole che mettono di buon umore, perfetta per il periodo. Sempre che non si riveli una deprimente bambinata fordiana, ça va sans dire.
Ford dice: di commediole francesi inutili ho già fatto il pieno di recente. Dunque, nonostante il protagonista, salterò a piè pari questa robetta natalizia per godermi l'ennesima visione di Una poltrona per due. Alla faccia del mio ben poco natalizio antagonista.


Ambo

"Quante fregnacce scrivono quei due bloggers, ammazza!"
Cannibal dice: Commediola italiana che, nonostante la presenza di quella bella topolona di Serena Autieri, non mi ispira per niente. Preferisco la commediola francese della settimana, grazie.
Ford dice: se evito la commediola francese, figuriamoci quella italiana.


The Perfect Husband

"La prossima volta mi guarderò bene dallo spararmi una rassegna di film cannibali!"
Cannibal dice: Un horror italiano.
A una frase del genere, negli anni '70 sarebbe potuta seguire l'esclamazione: “Che figata!”.

Oggi invece al massimo si può dire: “Che merda!”.
Ford dice: un horror. Già un brutto segno.
Un horror italiano. Un segno ancora più brutto.
Ci manca solo che piaccia a Cannibal, e il disastro sarà completo.


La metamorfosi del male

"Cannibal, Ford ci sta impiegando davvero troppo, così sono venuto io a Casale per finire il lavoro con te."
Cannibal dice: Horrorino che si preannuncia di qualità tra il pessimo e l'infimo, so già che per curiosità potrei finire a vederlo comunque. Per farmi del male. Come se già la lettura quotidiana di WhiteRussian non fosse abbastanza.
Ford dice: ecco un altro horror inutile. Quantomeno non è italiano. Che è già qualcosa.

Broadchurch - Stagione 1

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Produzione: ITV
Origine: UK
Anno:
2013
Episodi: 8





La trama (con parole mie): nella piccola cittadina costiera britannica di Broadchurch il detective capo Alex Hardy, fresco di nomina ed ancora segnato da un caso che lo vide protagonista tempo prima, assiste al ritrovamento del cadavere di Danny Latimer, undici anni, strangolato e dunque abbandonato sulla spiaggia. Esclusa l'ipotesi del suicidio l'investigatore, supportato dalla collega nata e cresciuta nel paese Ellie Miller, si getta sulle tracce lasciate dall'assassino del ragazzo, che pare potrebbe risultare perfino qualcuno che lo stesso conosceva o frequentava.
L'evento, oltre a scatenare una serie di conflitti e timori in seno alla comunità, scoperchia come un vaso di Pandora i segreti di alcuni abitanti del luogo, dal prete all'edicolante e responsabile delle attività dei ragazzi legati alla storica associazione dei Giovani Marinai passando per la stampa e la famiglia stessa di Danny: dove si nasconde la verità?
Chi ha ucciso il figlio minore dei Latimer?
E fino a che punto Hardy e Miller saranno disposti a spingersi anche oltre le loro divergenze per consegnare il colpevole alla Giustizia?








L'animo umano è uno degli abissi più profondi che si possa sperare o temere di affrontare, figlio di turbamenti, cambiamenti, sentimenti così forti da lasciare senza parole: probabilmente è per questo che, da che ricordi, le storie in grado di esplorare soprattutto le sue parti più remote, nascoste e terrificanti dello stesso hanno sempre finito per affascinarmi.
Fiction o realtà, i racconti di Poe e le cronache di Blunotte, il "lato oscuro" rappresenta senza dubbio una tentazione irresistibile, che si tratti di visioni, letture o esplorazioni emotive: dunque il genere crime trova la sua collocazione ideale, qui al Saloon, sostenuto anche dalla passione nutrita da Julez per il genere. All'inizio di questo duemilaquattordici, True detective giunse a sconvolgere i nostri occhi di spettatori grazie ad una delle vicende più torbide e da brividi del passato recente - e forse non solo -, lasciando il segno per quello che sarà il modo di approcciare questo tipo di prodotti da qui in avanti: non avrei mai pensato che, neppure qualche mese dopo, avrei scoperto una sorta di suo fratellino minore giunto dal cuore dell'Inghilterra di campagna, in grado di superare per intensità anche l'ottima trilogia del Red Riding, Broadchurch.
Orchestrato attorno all'omicidio del giovanissimo Daniel Latimer, questo piccolo, intenso viaggio sulle coste anglosassoni, lontane per approccio ed indole alle grandi città come Londra, riporta l'orologio indietro mostrando quanto poco, in secoli di Storia, sia cambiato davvero l'Uomo, schiavo di desideri, impulsi e passioni difficilmente controllabili, quanto più che altro anestetizzate da una vita passata all'interno di una società e di una comunità ad una prima e superficiale occhiata tranquille e ben indirizzate: così, dai due detectives a capo delle indagini, lo spigoloso e poco empatico Hardy e la fin troppo empatica Miller, fino ad arrivare ai singoli abitanti di Broadchurch, più o meno colpevoli di qualcosa, custodi di segreti piccoli e grandi - perchè tutti ne abbiamo, e spesso le grandi tragedie finiscono per portarli a galla -, assistiamo ad un viaggio all'interno dell'animo umano iniziato con il peggiore degli sconvolgimenti che possano cambiare la vita di una famiglia, la morte di un figlio.
Da padre, sinceramente non riesco neppure ad immaginare cosa potrebbe significare seppellire il proprio bambino, ancor più se cosciente del fatto che qualcuno - e chissà, qualcuno che forse frequentava anche casa vostra - possa averlo deliberatamente ucciso, travolto dall'istinto o spinto da un impulso che di umano pare avere davvero poco, e ancor più dover affrontare il peso del giudizio nel momento in cui i dubbi a proposito dell'omicidio stesso possano finire per investire noi e la famiglia che si cerca sempre di proteggere.
Ma penso anche che, genitori o no, risulti davvero arduo accettare che possano esistere cose così terribili ed apparentemente impossibili da gestire ed affrontare: la perdita di un figlio - famiglia o comunità che sia - equivale alla perdita dell'innocenza, ai segreti svelati, a tutto il marcio che lottiamo per nascondere vomitato dalle viscere della terra che pensiamo possa essere la nostra casa, il nostro rifugio: come per i Latimer, come per il vecchio Jack, tornato ad affrontare fantasmi troppo pesanti per una vita già segnata - forse il suo è il personaggio più profondo dell'intera produzione -, come per il prete, i giornalisti, il medium, e tutti i protagonisti di una storia che raccoglie l'eredità di pietre miliari come Twin Peaks e racconta il dolore, la rabbia, lo stupore, il tentativo di tornare ad emergere e respirare: perchè un altro grande pregio di Broadchurch - che, in questo, ricorda davvero molto la già citata True Detective - è quello di scrivere la parola fine ad un'indagine ed una storia che fin dal principio parevano necessitare proprio della loro risoluzione, amara o di riscatto che fosse.
E se da un lato ci sono genitori che perdono - ed in qualche modo, riguadagnano - un figlio, dall'altra troviamo figli che finiscono per perdere un genitore attraverso un processo anche peggiore, e che come per i Latimer finirà per segnare le loro esistenze per sempre.
Niente è limpido, dunque. Neanche la vittoria.
Perchè scoprire il colpevole non riporterà Danny a casa.
Non renderà quella scogliera maledetta di nuovo incontaminata.
Non restituirà ai sospettati creduti colpevoli quello che hanno perduto.
Ma se non altro, sarà liberatorio.
E permetterà di accarezzare il sogno di poter ricominciare.
Ad essere vivi, genitori, figli, uomini.
E a lasciare i segreti custoditi in un lato oscuro tornato ai suoi recessi.



MrFord



"I've only heard a voice
I've only seen your song
It keeps me awake
It keeps me floating."
Smog - "Floating" - 




White Russian e My Stories

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La trama (con parole mie): il primo dicembre appena trascorso si è tenuta a Milano la premiazione del concorso My Stories, patrocinato da Lancia e legato ad una collaborazione che ha visto Cinema e motori trovare l'ennesimo punto d'incontro.
Grazie agli organizzatori, Ford ha potuto assistere all'evento e scoprire un'altra piccola parte del mosaico che potrebbe aver visto passare dalle sue parti i registi di domani.





Una delle cose più interessanti di questi anni passati nella blogosfera è stata senza dubbio veder crescere quello che fu il parto di una sera gonfiata a Jagermeister che non pensavo avrebbe avuto gran futuro fino a diventare praticamente un secondo lavoro con riscontri pronti ad arricchire a livello culturale - la scoperta di nuovi titoli -, personale - aver conosciuto, per esempio, il mio fratellino Dembo e perfino la mia nemesi Cannibal Kid - ed in qualche modo professionale.
Proprio a seguito di uno di questi ultimi ho avuto la possibilità di assistere alla premiazione del concorso My Stories qui a Milano, rassegna legata a doppio filo al marchio Lancia, che prevedeva il confronto tra dieci cortometraggi girati in dieci città europee da altrettanti giovani registi valutati da una Giuria presieduta dal direttore della fotografia Luca Bigazzi e da Silvio Soldini.
In una location davvero molto affascinante nel pieno del rinato quartiere Isola, dopo aver assistito alla proiezione dei due corti premiati e prima di affrontare il buffet, si è trovato il tempo per un interessante dibattito legato al rapporto tra motori e settima arte, con Bigazzi e Soldini pronti a citare classici come Nel corso del tempo di Wenders e nuovi cult come Locke, passando per Il braccio violento della legge e Drive.
Senza dubbio uno spunto da rassegna vera e propria, quello del legame tra vetture e pellicola, dalle tamarrate come Fast&Furious o Transporter fino a pietre miliari come Bullit o Punto Zero, senza dimenticare momenti cult regalati da prodotti come Ronin o Death Proof.
Un viaggio tra passato e presente - condito dai ricordi dei due veterani della Giuria - pronto a condurre al futuro passando, chissà, dalle parole di un giovane regista spagnolo dall'inglese un pò stentato.
Il tutto con la speranza che l'esperienza possa ripetersi anche alla prossima edizione di My Stories, coltivando il desiderio che questo post funga da pulce nell'orecchio agli organizzatori in modo da sponsorizzare un ruolo da giurato anche per questo vecchio cowboy.
In fondo, non ci sono limiti se il piede è ben piantato sull'acceleratore.
O almeno così mi piace pensare.



MrFord





Orange is the new black - Stagione 1

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Produzione: Netflix
Origine: USA
Anno: 2013
Episodi: 13




La trama (con parole mie): Piper Chapman, poco più che trentenne promessa sposa al giovane scrittore di buona famiglia Larry, viene incarcerata a seguito dei reati commessi come corriere di denaro per l'ex fidanzata e trafficante di droga Alex di anni prima, e condannata a scontare una pena di poco più di un anno.
Quella che, però, dall'esterno pare un'impresa tutto sommato accessibile, per Piper diverrà una vera e propria corsa ad ostacoli all'interno: dalla sua incapacità di relazionarsi con le altre detenute alle regole non scritte della vita dietro le sbarre, infatti, molte saranno le complicazioni.
Come se non bastasse, poi, la stessa Alex - colei che ha fatto il nome di Piper, di fatto segnando il suo destino - è tra la popolazione della stessa struttura detentiva: sentimenti e sensi di colpa si mescoleranno, dunque, finendo per portare questa neofita della routine da penitenziario ad affrontare un giro di vite della propria esistenza.







Questo post partecipa con grinta e più caos possibile alla selezione dedicata da noi bloggers alle Bad Girls.




Probabilmente pochi luoghi fisici finiscono per portare alla luce la parte più animale e votata alla sopravvivenza del carcere: una prova in grado di schiacciare e seppellire anche i più forti, e portare in superficie, al contrario, la capacità di adattarsi di chi, apparentemente, pare destinato a soccombere.
Personalmente, pur non avendo mai provato sulla pelle - fortunatamente, direi - l'esperienza, resto comunque molto affascinato dalla geografia sociale ed umana dei racconti carcerari, siano essi tradotti in romanzi, film o serie televisive: qualche anno fa ricordo con quanto trasporto seguii Oz, uno dei titoli cult di casa Ford, interamente ambientato in un particolare braccio di un carcere di massima sicurezza all'interno del quale omicidi, ammazzamenti e violenze di vario genere erano all'ordine del giorno.
Nel corso delle ultime stagioni, invece, è stata una serie "in rosa" a far parlare e scrivere molto di se, nella blogosfera e non: Orange is the new black.
Sponsorizzato molto in casa Ford da Julez, fiduciosa del fatto che anche io avrei gradito, questo titolo ha finito inevitabilmente, dopo una partenza forse con il freno a mano troppo tirato, a conquistare pienamente il favore del sottoscritto, guadagnandosi di diritto lo status di "must see" con il quale era giunto su questi schermi spinto da aspettative decisamente alte.
Merito del grande lavoro degli sceneggiatori sui personaggi e dello straordinario gruppo di attrici protagoniste - bravissime dalla prima all'ultima, uno di quei casi in cui vige la regola di Lost rispetto alle scelte ottime della produzione in questo senso e della chimica che, probabilmente, si è venuta a creare all'interno della crew -, e di un crescendo assolutamente pazzesco partito con i primi segni di cedimento della protagonista Piper Chapman e con l'inserimento del personaggio forse più sfaccettato ed interessante della season, la terribile Pennsatucky, che per quanto insopportabile sia riuscita ad essere ha rappresentato, forse, sotto più aspetti, il charachter chiave per il cambio di direzione preso dalla serie nel mio cuore di appassionato.
Johnny Cash, nella sua straordinaria San Quentin, cantava quanto le mura di una prigione potessero rendere ancora più freddo il sangue dei detenuti che vi abitavano, di fatto amplificando le zone d'ombra che li avevano portati fino a quel punto del loro percorso: in questo senso il lento sprofondare di Piper verso il tostissimo finale è espressione perfetta delle parole del Men in black, sfruttato in equilibrio rispetto ad alcuni gesti di generosità e vicinanza tra le detenute, il rapporto tra le stesse e le guardie - interessante il personaggio della giovane donna, la più morbida tra i "controllori" -, il sesso - e in questo senso, nonostante la gettonatissima Alex Vause, continuerò sempre a preferire la rozza Nicky -, una buona dose di ironia nera - la mitica Boo - ed una critica neppure troppo velata ad un sistema che ingrassa le tasche della classe dirigente sulla pelle dei contribuenti così come della popolazione carceraria - altro spunto niente male in vista della seconda annata è quello dei fondi "mangiati" dai grandi capi dell'amministrazione a scapito delle attività da svolgere e delle strutture interne del carcere -.
Orange is the new black, dunque, trova conferma anche al Saloon del suo status di titolo con le palle e tutte le potenzialità per diventare ancora più tosto ed imperdibile per il pubblico: in fondo, tutti noi, anche i più posati e ligi alle regole, teniamo dentro un qualche animale pronto ad uscire e lottare per la propria sopravvivenza senza quasi guardare in faccia a nessuno.
E' la Legge della Giungla.
E non c'è giungla peggiore di una prigione.
Figurarsi quando la prigione in questione è territorio e dominio dell'altra metà del cielo.
Ho come l'impressione che per Piper, in questo senso, i guai siano appena all'inizio.
Per fortuna nostra, da questa parte dello schermo e delle sbarre.



MrFord


Di seguito il programma dettagliato della rassegna:



"Think of all the roads
think of all their crossings
taking steps is easy
standing still is hard
remember all their faces
remember all their voices
everything is different
the second time around."
Regina Spektor - "You've got time" - 




The rover

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Regia: David Michod
Origine: Australia
Anno: 2014
Durata:
93'





La trama (con parole mie): dieci anni dopo il collasso economico planetario, nel cuore dell'outback australiano il solitario Eric si getta all'inseguimento della banda di rapinatori in fuga responsabile del furto della sua auto. Ignorando qualsiasi ostacolo e difficoltà, lo stesso Eric si troverà, nella rincorsa alla gang, ad incrociare la strada con Rey, fratello del leader dei fuggitivi lasciato a morire ferito sul luogo della rapina.
I due uomini, mossi da motivazioni profondamente differenti, si troveranno a condividere uno strano, lungo viaggio uno accanto all'altro: cosa accadrà quando giungeranno a destinazione?
E soprattutto, riusciranno a trovare un equilibrio tra le loro differenti visioni in modo da poter raggiungere lo scopo senza intralciarsi - o uccidersi - l'un l'altro?
Quando la sabbia si sarà depositata, e resterà solo il vento a parlare, solo la Legge della giungla fornirà una risposta.








Ricordo bene il giorno in cui vidi Animal Kingdom, qualche anno fa: non tanto per il film, che nonostante alcune ottime recensioni ed una certa potenza mi parve solo discreto, quanto perchè mio padre fu ricoverato per un'improbabile peritonite a sessant'anni suonati da un pezzo.
Il ritorno sullo schermo dello stesso, ruvido regista australiano, però, mi incuriosiva non poco, in parte per l'amore incondizionato che nutro per la terra Down Under, in parte perchè il genere pareva proprio quello giusto per il sottoscritto: spazi sconfinati, inseguimento, sparatorie, poche parole.
Come direbbe il Cannibale, una fordianata.
E devo ammettere che The rover non è neppure così male, preso nel complesso: i due protagonisti - sì, perfino Pattinson - sono a loro modo convincenti, la colonna sonora interessante - pur se con le dovute proporzioni, è riuscita perfino a ricordarmi l'allucinato e splendido viaggio composto da Neil Young per Dead man -, i paesaggi mozzafiato - del resto, il deserto australiano è qualcosa di davvero spettacolare anche nei suoi scorci più spogli -, l'equilibrio tra tempi dilatati ed improvvise fiammate ben calibrato.
Eppure The rover non è neppure un buon film. Per niente.
Anzi, la cosa a cui somiglia di più è un piatto potenzialmente buono completamente privo di sale.
Il lavoro di Michod - che, a questo punto, forse non dev'essere proprio un fenomeno come molti avevano pensato ed io stesso avevo sperato ai tempi dell'uscita del già citato Animal Kingdom -, elaborato a partire da un soggetto scritto con l'attore Joel Edgerton, mostra lacune decisamente importanti dal punto di vista del carisma - se così si può scrivere a proposito di una pellicola - e della capacità di prendere il pubblico e trascinarlo all'interno di una storia violenta e priva di grandi speranze - come, del resto, aveva già mostrato di essere nel mood di raccontare - pronta, nel finale, a fare una sorta di passo indietro "morale" che vorrebbe colpire dritto al cuore ma che era riuscito decisamente meglio a Lucky McKee nello splendido Red: non ho pensato, nel corso della visione, che si trattasse di una questione di noia o incapacità di raccontare - esistono titoli decisamente più lenti, ed altri incredibilmente più brutti di questo -, quanto al fatto che l'impressione trasmessa dal viaggio grottesco e spietato di Eric e Rey sia quella di qualcosa che il regista poteva anche non raccontare, più o meno la stessa comunicata dalla differenza tra un post scritto con il cuore a proposito di un film che si è amato - o odiato - ed uno che, a conti fatti, aver visto oppure no finisce per non cambiare di una virgola la nostra visione del mondo.
Come se non bastasse, inoltre, le ore trascorse dalla visione hanno finito per ridimensionare le già non entusiasmanti impressioni iniziali, andando a gettare benzina sul fuoco rispetto all'idea che Michod non sia altro che un fuoco di paglia - per l'appunto - in attesa di approdare ad Hollywood e cominciare a girare blockbuster di serie b come capitò a giovani promesse del calibro di Matthew Kassovitz senza però aver mai raggiunto le vette che quest'ultimo toccò con L'odio.
Lo stesso cocktail proposto, frutto della combinazione di road movie, action, vendetta, disagio interiore ed esteriore e futuro prossimo distopico - attenzione, però, a non confonderlo con un altro prodotto australiano doc, Interceptor, che una cosetta come questa se la mangia a colazione - finisce per risultare incapace di prendere una via definitiva, così come per sprecare momenti decisamente interessanti come il confronto tra Rey e suo fratello nel finale - che deve molto sempre ad Animal Kingdom -: quello che resta passa tutto da Eric di fronte al nano trafficante d'armi e dal durissimo e meraviglioso outback australiano.
Ma è troppo poco perchè si possa credere di essere di fronte ad un grande film.
Così come è troppo poco perchè si possa pensare di essere in procinto di massacrarne uno pessimo.




MrFord



"There can be no denyin' 
that the wind 'll shake 'em down
and the flat world's flyin'
there's a new plague on the land 
if we could just join hands
if we could just join hands."
Led Zeppelin - "The rover" - 




 

Step up all in

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Regia: Trish Sie
Origine: USA
Anno:
2014
Durata:
112'




La trama (con parole mie): Sean e la sua crew di ballo, giunti da Miami a Los Angeles per fare fortuna e messi di fronte all'ennesimo rifiuto, si trovano su fronti opposti per quanto riguarda il modo di agire. Il ragazzo, infatti, vorrebbe rimanere e perseverare, mentre i suoi compagni hanno intenzione di fare ritorno nella loro città per rimettere insieme i pezzi e ripresentarsi sul palco ancora più preparati: separatisi, si ritroveranno a Las Vegas per contendersi un contratto di tre anni, premio di un reality show che vede giungere tra le best four delle crew di danza la nuova squadra di Sean, i suoi vecchi amici ed il loro rivale di sempre, Jasper, accompagnato dai favori del pronostico e degli organizzatori.
Cosa accadrà, dunque, quando i nodi verranno al pettine? E quale lezione imparerà il ballerino da sempre ossessionato dal successo e dalla realizzazione del suo sogno?








Ai tempi dell'uscita in sala di Step up all in, ultimo capitolo di un brand che, onestamente, ho sempre considerato privo di qualsiasi senso compiuto, mi sono ritrovato messo all'angolo da uno di quei compromessi che, di norma, si finiscono per accettare in un rapporto di coppia: in cambio degli innumerevoli film più o meno pesanti propinati dal sottoscritto, Julez ha finito per richiedere espressamente una visione di questo, forse memore della non delusione data da Battle of the year, tamarrata oltre il trash ma sorprendentemente quasi divertente con il nostro lostiano preferito Josh Holloway.
Peccato che il lavoro di Trish Sie sia un'accozzaglia di schifezze a metà tra Mtv ed il peggio del piccolo schermo shakerati come fossero un frullato di sogni da vendere ai ragazzini pronti a scommettere che, se si faranno in qualche modo il culo - almeno in una misura figa, certo non sgobbando davvero - qualcuno finirà per riconoscere il loro immenso talento e concedere l'occasione che meritano: certo, le coreografie finiscono quasi per essere piacevoli - anche se un qualsiasi episodio di America's Best Dance Crew regala emozioni più forti - e tutto sommato robetta di questo genere finisce per essere assolutamente innocua rispetto a titoli con pretese autoriali proposti e presentati come Capolavori dai distributori, ma è davvero troppo poco per non rimanere inorriditi dallo svolgimento elementare della trama - che pare ai livelli di un episodio di Uomini e donne con qualche ballo ben eseguito in più - e dall'adattamento italiano, ridicolo soprattutto per il doppiaggio - senza alcun dubbio la cosa peggiore, con l'affidamento della parte di Jasper, rivale del protagonista Sean, a Gue Pequeno, cresciuto con i Club Dogo e da oggi ufficialmente nominato peggior doppiatore della Storia del Cinema -.
Per il resto pare di assistere, a livelli d'implausibilità, ad un film tra i più recenti con protagonista Steven Seagal abilmente mescolato con il peggio dell'horror di infima serie, e di accompagnare il main charachter nella più improbabile ed assurda delle scalate al successo e alla vittoria che quantomeno nel già citato film "lostiano" veniva saggiamente risparmiata al pubblico, senza prendere troppo sottogamba l'intelligenza dello stesso.
Detto questo, se siete aspiranti ballerini o concorrenti di Amici, sicuramente troverete spunti necessari nel corso della visione, e se non lo siete, per quanto il risultato sia davvero prossimo allo zero assoluto della settima arte, finirete per non riuscire a volere male ad un lavoro di qualità bassissima ma ugualmente privo della spocchia di altri di maggiore prestigio.
In fondo, se siamo in grado di godere di cult e titoli destinati a rimanere nel nostro cuore di spettatori e nei nostri occhi, è anche merito dei termini di paragone offerti da schifezzone innocue come Sharknado o questo Step up all in, che con le magliette tagliate della protagonista femminile ed i suoi faccia a faccia tra "buoni" e "cattivi" neanche fossimo nel pieno di un cartone animato fuori tempo massimo regala alcuni dei momenti più agghiaccianti che ricordi del passato recente, contendendo al secondo capitolo del brand degli squali volanti la vetta di ogni classifica di assurdità.
Resta l'amarcord dei tempi d'oro in cui i film erano naif praticamente per scelta legato alla selezione dei nuovi membri della crew - neanche fossimo in Expendables 3 - ed il classico crescendo con le due formazioni guidate dagli ex migliori amici costretti a giocarsi un posto in finale che fa tanto Holly e Benji.
Peccato solo che il risultato sia decisamente inferiore.
E ben lontano dai gusti anche più tamarri - o nostalgici - del sottoscritto.




MrFord



"If you say run, I'll run with you
if you say hide, we'll hide
because my love for you
would break my heart in two
if you should fall
into my arms
and tremble like a flower."
David Bowie - "Let's dance" - 




Lo sciacallo - Nightcrawler

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Regia: Dan Gilroy
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
117'





La trama (con parole mie): Lou Bloom è un uomo ossessionato dal successo e dall'affermazione, nutrito dalla rete e dalla cultura "fai da te", protagonista di una sorta di american dream per il momento realizzato solo nella sua testa che vive di espedienti. 
Quando, per caso, si ritrova testimone di un incidente stradale, decide di gettarsi a capofitto nel mondo del giornalismo d'assalto, reinventandosi reporter per le strade di una Los Angeles abbracciata dalla notte.
Assunto un collaboratore ed avviato un proficuo rapporto con un canale televisivo locale, Lou si dedica con tutte le forze alla ricerca di servizi sempre più vicini al limite imposto dall'etica mettendo la sua realizzazione davanti ad ogni cosa, ad ogni costo: quando, una notte, giunge sul luogo di un omicidio prima della polizia riprendendo i due assassini, la posta in gioco si alza come non era mai capitato prima.








Una delle caratteristiche fondamentali di un'opera - sia essa letteraria, cinematografica, musicale o artistica in genere -, almeno per quanto riguarda questo vecchio cowboy, è sempre stata il cuore, quella scintilla che permette allo spettatore - parlando ovviamente di pellicole - di entrare in sintonia con quello che si trova di fronte: non è un mistero, in fondo, che quando un autore finisce per raccontare qualcosa che ben conosce, imbocca una sorta di corsia preferenziale rispetto a chiunque sia "dall'altra parte".
E non è un caso che i miei favoriti - i cosiddetti "fordiani" - siano tutti legati a questi concetti, da Eastwood - il rapporto tra padri e figli - a Cash - il conflitto tra la parte oscura e quella sacra -, da Nesbo - il fascino della dipendenza e la presenza per chi amiamo, sempre e comunque - a persone portate sullo schermo ma assolutamente reali - il Jean Dominique di The agronomist -.
Jonathan Demme, che firmò lo straordinario documentario appena citato, portò sullo schermo anche uno dei grandi Capolavori del Cinema USA moderno, Il silenzio degli innocenti: e perfino lì, in quella cella, o nell'agghiacciante telefonata che chiudeva la pellicola, si finiva quasi per empatizzare con il genio terrificante di Hannibal Lecter.
Come nella camminata claudicante divenuta fiera di Kaiser Soze.
O nella follia innevata di Tony Montana.
Tutti i grandi "cattivi" finiscono, in qualche modo, per affascinare almeno una piccola parte del "cattivo" che è in noi.
L'unica eccezione che ho potuto riscontrare nel corso della mia vita è rappresentata da Grenouille, protagonista indimenticabile dell'altrettanto indimenticabile Il profumo di Patrick Suskind, uno dei romanzi più importanti della mia storia di lettore e, probabilmente, uno dei dieci che porterei su un'isola deserta: le vicissitudini dell'assassino alla ricerca del profumo perfetto evocano ancora oggi immagini straordinarie, nonostante, ai tempi, per la prima volta mi accorsi del desiderio irresistibile di prendere le distanze da quel main charachter così rivoltante e disgustoso, tanto da comprendere il fastidio che lo stesso finiva per generare negli altri che incontrava pagina dopo pagina.
Dan Gilroy, al suo esordio dietro la macchina da presa - non proprio giovanissimo, considerata la classe cinquantanove -, è riuscito a farmi sentire per la seconda volta in quel modo con una sicurezza ed una padronanza del mezzo cinematografico spaventose, talmente salde da far dubitare non solo dell'esistenza di un concetto di fiction, ma di materializzare quello di giornalismo - ovvero cronaca dei fatti, non partecipazione - sostituendo, di fatto, con esso la magia del Cinema.
Lo sciacallo è un film profondamente odioso e disturbante, grottesco e caricaturale, forse perfino troppo facile nella cinica crudeltà di certi passaggi - i confronti tra Lou ed il suo aiutante Rick, l'ascesa dello stesso Lou -, che molto probabilmente non amerò mai e poi mai come un altro grande ritratto in notturna di L. A., Collateral, fotografato altrettanto bene eppure gelido come una scossa dritta nel cervello avendo ingoiato un boccone troppo grande di gelato, eppure a suo modo indimenticabile, rispetto alla stagione che volge al termine.
E dalla strepitosa performance di Jake Gyllenhaal - mai così bravo e diverso dalle sue incarnazioni precedenti, capace di rendere alla perfezione il lato quasi psicopatico, e non solo voyeuristico del suo personaggio, in bilico tra composta e falsa cortesia ed aggressività da predatore - a sequenze da brividi - l'inseguimento per le strade nel finale -, tutto pare ricondurre ad un'unica, terribile conclusione: Lo sciacallo non è Cinema, non è cuore, non è quella scintilla, ma resta e resterà clamorosamente grande.
Da fan del lato oscuro e da persona pronta spesso e volentieri a farsi tentare dallo stesso, onestamente non sono felice che sia così: perchè sapere che esistono pellicole come questa, in giro, e che in qualche modo finiscono per fotografare la realtà, riesce a fare paura più di qualsiasi horror.
Nello sguardo oltre la macchina di Lou che s'incrocia con quello del killer appena uscito dall'auto ribaltata c'è l'incontro di due predatori, neanche fossimo nel cuore della giungla (urbana) della vita: uno stringe una pistola, è coperto di sangue, è senza dubbio un carnivoro, ed aggredisce qualunque cosa rappresenti per lui un ostacolo, mantenendo il suo status di leone alfa; l'altro brandisce lo strumento principe della comunicazione moderna, vive tra le ombre, mangia quello che gli conviene mangiare, e quando vede un ostacolo, tiene ben salde le zampe che gli permetteranno di saltare all'ultimo secondo, da buono sciacallo.
Uno ha il cuore, pur se nero. L'altro no.
Uno scaglia fulmini e saette dalla sua arma, l'altro illumina il mondo che vuole sia mostrato al mondo per poterlo indirettamente controllare.
"Al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che hanno la pistola e quelli che scavano. Tu scavi.", recitava Eastwood in Il buono, il brutto, il cattivo.
Ma quello è Cinema.
Lo sciacallo è più simile a quello che troviamo quando le luci si spengono, usciamo dalla sala e veniamo vomitati nel mondo.
Niente più sogni.
Due predatori.
Chi pensate avrà vinto?




MrFord




"Straight out of hell
one of a kind
stalking his victim
don't look behind you
nightcrawler
beware the beast in black
nightcrawler
you know he's coming back
nightcrawler."
Judas Priest - "Nightcrawler" - 




 

Thursday's child

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La trama (con parole mie): continua la marcia d'avvicinamento alla fine dell'anno e alle classifiche che porta in dono. Purtroppo per il sottoscritto, continua anche la collaborazione con il mio sempre fastidioso rivale Cannibal Kid, nella speranza che i nostri film dell'anno possano essere assolutamente differenti.
Il weekend, invece, porterà scompiglio nelle suddette classifiche, o la distribuzione italiana regalerà l'ennesimo cocktail di Cinepanettoni e delusioni cocenti?
Soltanto le prossime visioni ci daranno le risposte.

"Ford sarà alla guida dell'aereo? Voglio il rimborso del biglietto!"
Ma tu di che segno 6?

"Ford, Cannibal, aiuto: ho scoperto che c'è Boldi che gira da queste parti!"
Cannibal dice: Io ero convinto che ormai i cinepanettoni fossero più scaduti del pane e salame di Ford, invece sono come uno di quei piatti duri da digerire che puntualmente ti si ripropongono in bagno. Neri Parenti torna così insieme a Massimo Boldi a riscaldare la minestra tirando fuori addirittura la tematica zodiacale. Cosa che significa che questi non sono alla frutta, sono già all'ammazzacaffè. E all'ammazzaspettatore.
Ford dice: una di quelle merde natalizie che spero sempre non vengano riproposte e puntualmente tornano ad infestare i Cinema, che già dal trailer pare una roba da cascate di vomito. Così terribile che non lo propinerei neppure a Peppa.



Il ricco, il povero e il maggiordomo

"Andiamocene in fretta, prima che arrivi Ford e chieda di guidare!"
Cannibal dice: Una volta Aldo, Giovanni e Giacomo erano garanzia di risate e di un citazionismo cinematografico niente male. Negli ultimi tempi hanno invece stufato alla grande e sono come Ford: una barzelletta che ormai non fa più ridere. Chissà se con questa nuova fatica riusciranno a tornare, almeno in parte, alla gradevolezza di un tempo, oppure se sarà una fatica per lo spettatore arrivare a fine visione con gli occhi aperti.
Ford dice: Aldo, Giovanni e Giacomo, dai tempi di Mai dire gol, I corti e Tre uomini e una gamba erano una garanzia. Dopo l'ottimo Chiedimi se sono felice, però, la loro freschezza è inesorabilmente calata, e gli ultimi lavori non sono stati certo tra i migliori immaginabili. Speriamo che questa nuova fatica, più che il terribile Il cosmo sul comò, ricordi le atmosfere degli esordi.



Storie pazzesche

"Quante volte te lo devo ripetere!? Non ti sposo, sono già promesso a Katniss Kid!"
Cannibal dice: Produzione argentina sponsorizzata da Pedro Almodovar, almeno stando a sentire la campagna marketing, pare sia una delle commedie più apprezzate a livello internazionale dell'anno. Sembra inoltre che abbia buone possibilità di beccarsi una nomination agli Oscar tra i migliori film stranieri. Pur restando un pochino scettico, credo potrebbe rivelarsi una bella sorpresa. E chissà se sarà una commedia in grado di far ridere pure quel serioso di Mr. Ford?
Quella sì sarebbe davvero una storia pazzesca!
Ford dice: il Cinema argentino mi è sempre stato simpatico, e in giro si dice un gran bene di questo Storie pazzesche. Speriamo che sia una bella sorpresa natalizia, un po' come se Cannibal decidesse finalmente di scrivere sensatamente di Cinema o se riuscissi a convincerlo a farsi una bevuta!



Pride

"Abbasso Tatcher Kid! Ford rules!"
Cannibal dice: Un film anti-Thatcher dalle parti di Pensieri Cannibali è sempre ben accetto. Da quelle di Renzi magari un po' meno. Al di là di questa nota positiva, Pride è una commedia ambientata negli 80s in cui la battaglia dei lavoratori si unisce a quella del movimento gay e dovrebbe essere un buon prodotto made in UK, tra i più acclamati in patria dell'annata, basta solo non scivoli nel buonismo fabiofaziesco. O, peggio ancora, jamesfordesco.
Adesso scappo, che devo organizzare una manifestazione in favore dell'orgoglio cannibale!
Ford dice: seconda commedia d'autore e secondo prodotto che potrebbe sorprendere in positivo. Ancora una volta, speriamo di trovarci più nei territori de La parte degli angeli, piuttosto che in quelli delle evitabilissime cannibalate!



Neve

Ford e Cannibal sono d'accordo: è tornata la neve!
Cannibal dice: Thriller on the road italiano che mi attira ben poco, anzi per niente. Diamo però atto ai nostri distributori di aver fatto uscire per una volta una pellicola nel periodo giusto, anche se di Neve per ora e per fortuna non se n'è ancora vista. Per compensare, comunque, la settimana prossima mi aspetto l'arrivo di un film intitolato Viva l'estate!
Ford dice: secondo titolo italiano della settimana, e secondo titolo italiano della settimana che eviterò come la peste, anche peggio delle bislacche proposte del mio antagonista. Con la speranza che, quest'anno, la neve dia un po' di tregua.



La storia di Cino

"Mi scusi, buon'uomo, sa dov'è il rifugio di Ford?""Tra i monti, cari Cannibalini, ma non vi conviene avvicinarvi: quello è un bruto."
Cannibal dice: C'è una sola cosa che mi interessa meno della storia di Cino. La storia di Ford.
Ford dice: c'è una sola cosa che mi interessa meno della storia di Cino. La storia di Peppa Kid.


Chef - La ricetta perfetta

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Regia: Jon Favreau
Origine: USA
Anno:
2014
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Carl Casper è un ex fenomeno della cucina da tempo accasatosi in un rinomato ristorante di Los Angeles ed in cerca di sfide e nuovi orizzonti. Quando un blogger e critico culinario critica aspramente il suo approccio conservatore, inizia per lui un viaggio che lo porta a tornare al punto di partenza della sua carriera, Miami, accanto all'ex moglie ed al figlio, con il quale non è mai riuscito a costruire davvero un rapporto.
La scelta di ricominciare grazie ad un food-truck percorrendo la strada che separa le due coste degli States rimetterà in gioco la sua passione per i fornelli, la volontà di mettere le basi per una nuova storia d'amore ed un rinnovato legame con il piccolo Percy: riuscirà Carl a mettere insieme gli ingredienti migliori per la sua nuova ricetta?
O la scommessa legata al ripartire dal basso scriverà la parola fine sulla sua carriera?








Personalmente, sono più legato all'atto del mangiare, che non a quello del cucinare.
Del resto, sono un predatore ingordo e dedito ai piaceri, spesso egoista e decisamente travolto dalle passioni: ho sempre pensato, al contrario, che la cucina fosse un'arte perfetta per le persone in qualche modo generose, intellettualmente o emotivamente.
Ho deciso di recuperare Chef su consiglio di una persona che ritengo se non generosa, quantomeno più in grado del sottoscritto di concepire il pensiero di qualcosa fatto per gli altri, e nel corso della visione ho avuto in mente Julez, che senza dubbio è l'essere umano più generoso che conosca - anche nei suoi difetti -, e dedicarmi a questa stessa visione è stato un vero e proprio piacere quasi fisico.
Osservare il percorso di Carl/Favreau - bravissimo nel dirigere, scrivere ed interpretare un charachter costruito con ogni probabilità sul suo stesso essere - attraverso l'arte culinaria - che è il suo terreno congeniale - e le peripezie in famiglia - decisamente più ostiche, ma non per questo meno soddisfacenti di una ricetta elaborata e ben riuscita - è stato un piacere in grado non solo di alimentare il bisogno di un film indie dal sapore decisamente Sundance, ma anche e soprattutto di una necessità fisica, legata al piacere di mangiare, ed osservare chi segue ispirazione ed istinto affinchè sia soddisfatta una delle voglie più antiche e primordiali di noi esseri umani: l'appetito.
Un appetito che non si contenta del riempire la pancia, ma che si concede perfino il lusso di scegliere la direzione da prendere non solo da parte del pubblico, ma dalla stessa direzione: Chef è senza dubbio un film dalle concessioni generose, per quanto, di fatto, prodotto di nicchia, eppure in grado di alimentare l'acquolina in chi si trova dall'altro lato della macchina da presa.
Favreau, sfruttando un cast d'eccezione per un titolo che dovrebbe essere una sorta di outsider semisconosciuto, riesce nella non facile impresa di dimenticarsi delle sue origini hollywoodiane e confezionare ad un tempo un prodotto onesto e piacevole, ritmato da una colonna sonora splendida e soprattutto pane e salame nell'affrontare tematiche che finiscono per essere note anche a chi non è avvezzo al successo ed al dorato mondo della cucina alternativa d'alto bordo.
Attraversando gli States più caldi e favoriti dal sottoscritto - e l'ideale linea Miami/New Orleans/Los Angeles - il main charachter tocca tematiche importanti come il riscatto, l'amicizia - splendido il rapporto tra Carl ed il suo vice interpretato da John Leguizamo - ed il legame unico che si crea, rinnova e costruisce tra padre e figlio, basato anche e soprattutto sul confronto, in grado di far crescere da entrambi i lati della barricata senza distinzione alcuna, esperienza da un lato ed energia dall'altro.
La cucina, di fatto una scusa legata, probabilmente, ad una delle attività collaterali dello stesso protagonista/sceneggiatore/regista, troppo abile con il coltello e tra i fornelli per essere soltanto un attore, rappresenta un punto di partenza per l'esplorazione dell'evoluzione di un uomo adulto trovatosi a mettere in gioco un ruolo lavorativo ma non solo nel nome non tanto di critiche piovute dall'esterno - quasi divertente la riflessione rispetto ai criticoni cresciuti nella blogosfera - ma della volontà di costruire qualcosa che vada ben oltre a quello che ci si potrebbe aspettare o alle crisi di mezza età imputabili per svariati motivi agli esponenti di sesso maschile - ottima l'idea di lasciare solo accennata la storia con la collaboratrice interpretata dalla Johansson, conquistata proprio con un piatto -.
Chef - e non voglio neppure pronunciarmi rispetto al pessimo adattamento italiano - è uno degli esperimenti più riusciti dell'anno per quanto riguarda l'alternativismo a stelle e strisce positivo, privo delle influenze che l'elitarietà cinematografica a volte induce nei suoi artisti più promettenti: ed è assolutamente interessante osservare l'uomo dietro la macchina da presa di Iron Man concentrarsi su un progetto low budget tenuto in piedi da favori chiesti agli amici - a tutti i livelli della settima arte - eppure in grado di regalare l'impressione che tutto avrebbe funzionato anche senza spinte, come un panino ben farcito e preparato con il piglio che si richiede ad un food-truck che si rispetti.
E qui al Saloon va bene così.
Pane, carne, il giusto condimento e quei momenti unici alla fine della serata, in bilico tra un drink e un sigaro.
Dove si andrà domani, chissà. Anche quando apparirà una concessione.
Nel frattempo, ce la saremo goduta davvero.




MrFord




"Ooh, now let's get down tonight
baby I'm hot just like an oven
I need some lovin'
and baby, I can't hold it much longer
it's getting stronger and stronger
and when I get that feeling
I want sexual healing."
Marvin Gaye - "Sexual healing" - 





Shameless - Stagione 4

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Produzione: Showtime
Origine: USA
Anno: 2014Episodi: 12





La trama (con parole mie): per i Gallagher la quotidianità è come sempre dura. Mentre Frank, ritrovato dopo essere sparito per l'ennesima volta, lotta per la vita una volta appreso che il suo fegato sta cedendo e finisce per andare alla ricerca della sua figlia maggiore, ai tempi neppure riconosciuta, Fiona si trova tra le mani il lavoro della vita ed una situazione mai così agiata: peccato che il richiamo della perdizione sia dietro l'angolo, e le conseguenze che verranno saranno disastrose.
Nel frattempo Lip si trova ad affrontare il lato più duro del dorato mondo del college, Ian una nuova piega della sua vita, Carl e Debbie l'imminente adolescenza ed il piccolo Liam gli ostacoli che essere un Gallagher comporta affrontare.
Così, mentre Kevin e Veronica si apprestano a diventare genitori, davanti al focolare della famiglia più strampalata del South Side di Chicago si affrontano cadute rovinose e nuovi tentativi di risalita: chi, alla fine della lotta, resterà in piedi? 
E soprattutto, ancora vivo?









Tornare dai Gallagher è un pò come tornare a casa.
Stagione dopo stagione, caduta dopo caduta, risalita dopo risalita, Shameless ha rappresentato, di fatto, in questi ultimi anni la vera erede della tradizione "di famiglia" che soltanto Six feet under era riuscita a tradurre con una sensibilità ed un approccio unici negli anni della sua programmazione.
E senza dubbio, al momento, le serie legata alle vicissitudini della più disfunzionale tra le famiglie del grande e piccolo schermo rappresenta uno dei titoli favoriti di casa Ford, in grado di proseguire nella sua corsa senza un cedimento, continuando a regalare emozioni così intense da far quasi pensare di essere lì, parte di un gioco e di una sopravvivenza che la gente normale ben conosce, e sulla propria pelle.
Nel corso di questa quarta stagione, caratterizzata principalmente dal crollo di Fiona - fin dal principio la vera e propria colonna della famiglia -, dalla lotta per rimanere vivo di Frank e dagli sforzi di Lip per prendere le redini della casa in assenza della sorella maggiore e di alzare la testa e tirarsi fuori dalla realtà del South Side - spinto probabilmente dal fatto che sarà l'unico tra i Gallagher a potercela fare - grazie al college, in casa Ford siamo riusciti ancora una volta ad emozionarci, lottare, commuoverci e stringere i denti come solo i Gallagher sanno fare, ed ancora una volta sentirci Gallagher a nostra volta.
Non è facile, raccontare la Famiglia come concetto, con tutte le sfumature, il meglio ed il peggio: eppure, quando ci si riesce, non c'è niente di così coinvolgente e noto a qualunque tipo di pubblico, dallo spettatore occasionale all'appassionato. In fondo, la Famiglia traduce, a partire dal nostro sangue, il concetto di Amore in realtà, e con esso riesce nell'impresa di creare un legame così forte da resistere anche di fronte al peggio che, in quanto esseri umani, siamo in grado di mostrare e portare nel mondo.
In questo senso, la quarta stagione di questo sempre sorprendente titolo riesce a mostrare qualcosa che non ci saremmo aspettati, ma che inevitabilmente ci si trova ad affrontare: il crollo di Fiona, da sempre l'unica certezza di questo curioso focolare, di fatto mette alla prova i componenti della famiglia così come l'audience rispetto all'idea di concedere una seconda possibilità proprio alla persona che più ha finito per sputare sangue affinchè le cose andassero per il meglio, e che proprio per questo, forse, si ritrova giudicata più severamente dei suoi scellerati genitori.
Accanto a questo, la progressiva ascesa di Lip, il più talentuoso dei Gallagher, il più intelligente ed adattabile, non per nulla buttato nel mondo - e nella realtà alla bambagia del college - in modo che possa lasciarsi alle spalle quello che i suoi fratelli e sorelle conosceranno come unica scelta esistente e possibile: la sua lotta per la sopravvivenza nel campus, decisamente diversa eppure umanamente simile a quella che ha intrapreso per le strade nel corso della vita ed un finale da grande film indie con una sequenza da brividi nel confronto con Mandy nella tavola calda segnano una svolta che, inevitabilmente, aspetta e rispetta le sue potenzialità.
E poi, Frank.
Ho sempre odiato Frank Gallagher.
Ed ho sempre considerato il suo come uno dei charachters più insopportabili e disgustosi mai apparsi sullo schermo. Uno di quelli che non ti augureresti mai di incontrare, figuriamoci averlo come genitore.
Eppure, nel corso di questa season four, ho assistito perfino ad una rivincita di questo egoista di professione, alcolizzato, drug addict e bastardo fino al midollo: ho visto Frank ormai in fin di vita ammonire i genitori dei figli dei compagni di scuola bulleggiati da Carl, affermando quanto certe esperienze possano formare il carattere, e che mentre quei bambini spaventati un giorno diventeranno medici, scienziati o capitani d'industria, il suo ragazzo potrà al massimo raccogliere i rifiuti con una tuta arancione, sempre che non finisca in carcere prima.
Ed ho visto Frank lottare con tutte le forze, anche quelle che non aveva, per restare vivo, e proprio accanto a Carl gridare in faccia a Dio che proprio lui, uno scarafaggio fatto e finito, era ancora lì.
Vivo, per l'appunto.
Ho visto Frank mostrare in un atto di ribellione quasi supremo, di fronte alla splendida immagine del lago Michigan completamente ghiacciato, che è un inno alla resistenza a tutto campo, la volontà di tutti i sopravvissuti di questo pianeta, di tutte le famiglie che cagano sangue per arrivare a fine mese, e trovano rifugio in qualche vizio di troppo per far fronte agli stronzi che comandano il mondo.
Un pò come il Grande Capo in persona.
Ho visto Frank lottare come non mai.
Come Mickie per Ian.
Che con quel "la sua famiglia" completa una metamorfosi costata lacrime e sudore.
E per la quale dovrà continuare a lottare ogni giorno.
E noi siamo tutti con lui.
Tutti con i Gallagher.
Vivi. Sempre.



MrFord




"Well I got a bad liver and broken heart, yeah,
I drunk me a river since you tore me apart
and I don't have a drinking problem, 'cept when I can't get a drink
and I wish you'd a-known her, we were quite a pair."
Tom Waits - "Bad liver and a broken heart" - 





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